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“Le strade più misteriose di adesso” su Torno giovedì

Giuliano appare nuovamente sul portale letterario Torno giovedì con il racconto “Le strade più misteriose di adesso“. Il titolo viene da una canzone di Vinicio Capossela.

C’è una città che vedo solo io. È deserta e lacerata dal fischio dei miei pneumatici, mentre torno costeggiando il muraglione da serate dimenticabili e dimenticate. Ha il rumore dei miei passi e il ronzio di un lampione difettoso. È il risciacquo vicino di una fontana e il mormorio lontano – ma incombente – della fabbrica che arrossa il cielo.
C’è stato un tempo in cui i fari della mia macchina non avevano ancora violato il buio di tutte le strade della provincia. In cui i due muretti a secco ai lati della striscia d’asfalto celavano incubi e fantasmi. Un ignoto rassicurante. Come la Citroen “Bel Ami” bordeaux, il ferro da stiro, parcheggiata invariabilmente nei pressi dell’ospedale, dove la città non è né vecchia né nuova, più brutta che bella.
Era un po’ di tempo fa. Quando vivevo ancora lì.
La città del passato ha il sapore bandito di una Raffo in lattina, e il clamore muto dei posti spariti senza ricordo e senza rimpianto. Un negozio di dischi in via D’Aquino, su piazza Garibaldi, giuro che c’era ma nessuno mi crede. Un pub in via Magnaghi, dove si beveva il “sommergibile” e la birra Kingston. “Sì, forse, ma come si chiamava?”
Sono prigioniero di una toponomastica obsoleta – i nomi dei locali fermi al terzultimo cambio di gestione – ostaggio di un’epoca troppo remota per la cronaca ma troppo fresca per la storia. Un angolo cieco della memoria. Le scritte “Noi tireremo dritto” non le ricordo fresche di vernice, ma già confuse in una rovina di intonaci sbrecciati. Eppure sono ancora lì, ogni volta che torno, fedeli nei secoli, al contrario delle insegne e dei sensi unici che cambiano senza chiedermi il permesso.
Ma quella città, io, continuo a vederla, sovrapposta a quella vera, attuale. Non è migliore, e non ne ho nostalgia, però la vedo.
Non so cosa farmene, di questo GPS generazionale.

Mazzate di morte!

“Mazzate di morte” – una reminiscenza anni 80 – è online dal 9 dicembre sul portale letterario Torno giovedì.

Mazzate di morte
Il brusio provinciale della piazza cessa di colpo. Un vuoto sonoro speculare a quello fisico, che si apre all’istante fra i capannelli.
“Mazzate!”, squittisce qualcuno, una luce di vile entusiasmo negli occhi.
Mazzate. Mica solo botte. Mani e piedi come mazze. E di mazze sembrano i rumori dei due che se le danno, nel silenzio innaturale.
Le regole di ingaggio sono rapide e spicce. La parola di troppo, lo sgarro, il casus belli, si confondono nel chiacchiericcio generale. Il segno è già passato, ma nessuno ancora lo sa. I due si fronteggiano, nel vero senso della parola: si minacciano occhi negli occhi e fronte contro fronte. Si cercano e si respingono, prima con le teste, poi con i petti. Non mettono mai le mani avanti, all’inizio. I primi due colpi sono di petto. Petti gonfi e tronfi, gallinacei. Al terzo colpo di petto si parte con le mani. Una spinta, uno schiaffo, un pugno. E a quel punto lo spettacolo comincia. E si fa silenzio.
Non parliamo noi, non parlano loro. Solo fiati, affanni. E il rumore sordo delle mazzate, attutito dai vestiti, dai cappotti. Cappotti neri, da dark. Spigati, da new waver. Con spalline (-ine?!) imbottite modello Goldrake. Cappotti proprio come quelli che indossiamo noi, ragazzi spersi negli anni Ottanta di una città qualsiasi, che guardiamo le mazzate. Ma quei due non sono come noi. Quei due sono diversi. Per loro il dialetto non è solo un diversivo spiritoso per lazzi e battute. Parlano il linguaggio della strada, loro, l’unico che sanno. E fanno a mazzate.
Perciò la danza quasi rituale dei corpi che si uniscono e si allontanano, che vorticano nel corpo a corpo, ci eccita ma non ci turba. Sono loro, non siamo noi. Per noi è semplicemente un episodio che spezza la noia, un argomento in più di cui ridere domani, quando – come oggi e come ieri – ci troveremo ancora in piazza. Qualcosa di cui parlare invece che delle nostre meschine bravate da figli di papà, di chi scopa con chi, del calcio e della musica.
Ma quando nessuno accorre a dividere, quando lo scontro è impari, quando uno dei due finisce per terra e soccombe, quando sono calci in pancia e in testa – Camperos o Cult con rinforzo di metallo in punta –, quando scorre il sangue e volano i denti, il silenzio si fa ancora più teso. E per un attimo avvertiamo tutti qualcosa dentro. Qualcosa che non sappiamo definire, ma che ci fa abbassare gli occhi.
“Mazzate di morte”, sussurra allora qualcuno, un refolo di dignitosa ritrosia. E ci sentiamo un po’ più vecchi e un po’ più stupidi.
Poi i due se ne vanno. Se ne va il carnefice, pulendosi sprezzante le mani con le mani, che non gli resti niente di quell’altro addosso. Se ne va la vittima, da solo o portato via da qualche amico apparso solo adesso, giurando vendetta se gliene rimane il fiato. Vanno via loro. Restiamo noi. E il brusio, nella piazza, ricomincia.

Tango del Tango perso

Un Tango (nel senso di musica) su un Tango (nel senso del pallone, e precisamente la sua versione povera, quella di plastica) che si è perso, e sui tutti i poveri palloni vittime dell’imperizia e degli ostacoli del duro calcio da strada. Pubblicato sul nuovo portale di scrittura Torno giovedì, a cura di MacchiaUmana e insana. La musica mettetela voi.

Questo è il tango d’ogni Tango
que en el tiempo se ha perdido
solcò prati, asfalto e fango
scivolando en el olvido.

Sono Tango plasticato
umile emulo del cuoio
lungo il barrio ho rotolato
su di un pino adesso muoio.

Nei bazar di piena estate
gai si stava noi palloni
penzolando nella rete
come tanti provoloni

e altre reti mai non vidi
per fermare i tiri scalzi
stadi mai, ma strade e lidi
furon sfondo ai miei rimbalzi.

“Che si attacchi o si difenda
chi la tira poi la prenda”
es la regla de la calle
dove giochi senza maglie

senza maglie, pali e porte
né steccati o recinzioni:
libertà vuol dire morte
per noi poveri palloni.

Questo è il tango d’ogni Tango
que en el tiempo se ha perdido
solcò prati, asfalto e fango
scivolando en el olvido.

Mille andate, poi un giorno
il destino appare avverso:
ruba l’ultimo ritorno
e tu sei per sempre perso.

Siamo vittime del Fato,
del rimpallo malmostoso,
dello stopper trafelato
e del bomber presuntuoso.

Wembley, Tele e Super Santos
mille tristi caminiti
compañeros ed amigos
solitari siam finiti

nel fossato del castello,
sotto il ventre del furgone,
oltre il chiuso di un cancello,
nell’esilio di un balcone,

nel cespuglio inestricato,
dentro il mare a tramontana,
sul soffitto mai scalato,
nel giardino di befana…

Questo è il tango d’ogni Tango
que en el tiempo se ha perdido
solcò prati, asfalto e fango
scivolando en el olvido.

Qui sul pino non ho voi
e vi guardo da lontano
ma a giocare prima o poi
giungerà gatto… Soriano.