Mazzate di morte!

“Mazzate di morte” – una reminiscenza anni 80 – è online dal 9 dicembre sul portale letterario Torno giovedì.

Mazzate di morte
Il brusio provinciale della piazza cessa di colpo. Un vuoto sonoro speculare a quello fisico, che si apre all’istante fra i capannelli.
“Mazzate!”, squittisce qualcuno, una luce di vile entusiasmo negli occhi.
Mazzate. Mica solo botte. Mani e piedi come mazze. E di mazze sembrano i rumori dei due che se le danno, nel silenzio innaturale.
Le regole di ingaggio sono rapide e spicce. La parola di troppo, lo sgarro, il casus belli, si confondono nel chiacchiericcio generale. Il segno è già passato, ma nessuno ancora lo sa. I due si fronteggiano, nel vero senso della parola: si minacciano occhi negli occhi e fronte contro fronte. Si cercano e si respingono, prima con le teste, poi con i petti. Non mettono mai le mani avanti, all’inizio. I primi due colpi sono di petto. Petti gonfi e tronfi, gallinacei. Al terzo colpo di petto si parte con le mani. Una spinta, uno schiaffo, un pugno. E a quel punto lo spettacolo comincia. E si fa silenzio.
Non parliamo noi, non parlano loro. Solo fiati, affanni. E il rumore sordo delle mazzate, attutito dai vestiti, dai cappotti. Cappotti neri, da dark. Spigati, da new waver. Con spalline (-ine?!) imbottite modello Goldrake. Cappotti proprio come quelli che indossiamo noi, ragazzi spersi negli anni Ottanta di una città qualsiasi, che guardiamo le mazzate. Ma quei due non sono come noi. Quei due sono diversi. Per loro il dialetto non è solo un diversivo spiritoso per lazzi e battute. Parlano il linguaggio della strada, loro, l’unico che sanno. E fanno a mazzate.
Perciò la danza quasi rituale dei corpi che si uniscono e si allontanano, che vorticano nel corpo a corpo, ci eccita ma non ci turba. Sono loro, non siamo noi. Per noi è semplicemente un episodio che spezza la noia, un argomento in più di cui ridere domani, quando – come oggi e come ieri – ci troveremo ancora in piazza. Qualcosa di cui parlare invece che delle nostre meschine bravate da figli di papà, di chi scopa con chi, del calcio e della musica.
Ma quando nessuno accorre a dividere, quando lo scontro è impari, quando uno dei due finisce per terra e soccombe, quando sono calci in pancia e in testa – Camperos o Cult con rinforzo di metallo in punta –, quando scorre il sangue e volano i denti, il silenzio si fa ancora più teso. E per un attimo avvertiamo tutti qualcosa dentro. Qualcosa che non sappiamo definire, ma che ci fa abbassare gli occhi.
“Mazzate di morte”, sussurra allora qualcuno, un refolo di dignitosa ritrosia. E ci sentiamo un po’ più vecchi e un po’ più stupidi.
Poi i due se ne vanno. Se ne va il carnefice, pulendosi sprezzante le mani con le mani, che non gli resti niente di quell’altro addosso. Se ne va la vittima, da solo o portato via da qualche amico apparso solo adesso, giurando vendetta se gliene rimane il fiato. Vanno via loro. Restiamo noi. E il brusio, nella piazza, ricomincia.

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