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I “fantasmi” del Mazza
Articolo apparso il 17 gennaio sul Quotidiano di Puglia, a commento di Spal-Taranto del 15 gennaio.
“Il fantasma del Brianteo” è il titolo di un racconto apparso in Pallafatù – Il calcio visto da Taranto, fortunata antologia a fini benefici uscita nel 2005. In quelle pagine si raccontava di un incontro avvenuto sulle gradinate dello stadio di Monza in uno degli ultimi anni di permanenza in B. Erano anni in cui, a dispetto della categoria, le trasferte erano il più delle volte un affare per poche decine di appassionati. Fra questi, uno strano tipo che veniva da solo e non parlava con nessuno. E che in un freddo pomeriggio al Brianteo svelò la sua storia: viveva a Milano, non era mai stato a Taranto ma suo padre era di origini cataldiane. E tanto gli bastava per preferire le gesta di Muro e Lorenzo su palcoscenici di provincia a quelle di Van Basten o Matthaeus che all’epoca illuninavano la Scala del calcio nella sua Milano.
Domenica scorsa, in un freddo pomeriggio al Mazza di Ferrara, è accaduto qualcosa di simile. Fra i supporters rossoblu accorsi a sostenere la squadra, si celavano un ragazzino di Pieve di Cadore folgorato dal Taranto durante il ritiro estivo, e un uomo sui trentacinque, veronese doc, che già tempo fa al Bentegodi aveva stupito il pubblico di fede jonica sciorinando, col suo accento profondamente veneto, vita, morte e miracoli dei giocatori del Taranto. Per entrambi niente parenti o amici tarantini e nessun soggiorno sui due mari: la loro è una scelta pura, dettata dagli insondabili capricci del tifo.
I due “fantasmi”, fantasmi non sono: hanno nome e cognome e sono facilmente rintracciabili. E la loro storia, al contrario di quella del “predecessore” anni 90, diverte, fa piacere, ma in fondo non stupisce più di tanto i tifosi tarantini: del resto, sembrano dire i supporters, i nostri sono i colori più belli del mondo, cosa c’è di strano se facciamo proseliti anche fra i forestieri? Allo stesso modo si inizia a fare l’abitudine, pur riservandole ogni volta tutto il calore e gli onori che merita, anche alla presenza sugli spalti di Paola Raisi Iacovone, ormai alla terza trasferta e definitivamente contagiata dal virus del tifo rossoblu, l’unica “malattia” che scalda il cuore.
Un’ altra differenza coi tempi del Brianteo: allora il Taranto era fra i cadetti, ma a Monza c’erano quattro gatti; oggi si naviga in terza serie, ma a Ferrara eravamo in seicento. Il racconto di Pallafatù parlava dell’anonimo milanese come di un fantasma che vaga nella memoria, e si chiudeva con queste parole: “Il fantasma del Taranto in B, e di un pezzo della nostra vita. Chissà, un giorno…” Chissà, ripetiamo adesso, magari quel giorno non è più tanto lontano…
“Lo specchio della porta” su Torno giovedì
Lo specchio della porta, il racconto di Giuliano originariamente contenuto nell’antologia “Pallafatù“, è stato recentemente pubblicato online dal portale letterario Torno giovedì.
Lo specchio della porta
Racconto tratto da Pallafatù – Il calcio visto da Taranto.
Una curiosità: Mimmo Laterza, Martino Mascellaro e Vanni Musciacchio, riappaiono ne L’eroe dei due mari come personaggi secondari.
Lo specchio della porta
«Mimmo Laterza! Mimmo Laterza!»
L’arbitro aveva appena indicato il dischetto e già lo invocavano. Solo pochi secondi e il boato di gioia si era tramutato con sorprendente naturalezza in quel coro. Decine di voci erano confluite disciplinatamente in un nome ed un cognome: i suoi. Per i tifosi dire «rigore» e pensare a lui era un tutt’uno. Del resto come dargli torto: in tutta la C2, e non solo, erano gli unici a poter vantare un portiere rigorista.
I suoi tifosi. Una cinquantina, stipati dietro la porta in quella specie di gabbia per polli che vendevano come curva. Rientrato in campo dopo l’intervallo, li aveva premiati col saluto di prammatica mentre prendeva posto fra i pali. Aveva intravisto facce familiari. Sempre quelle, da tempo aveva imparato a riconoscerle. Facce che ritrovava dietro di sé ogni domenica di trasferta, ma che lo accompagnavano anche in settimana, ai margini del campo di allenamento. Paradossalmente le perdeva solo durante le partite interne, annegate fra centinaia di altre facce. Cos’era la squadra per loro? Tempo e soldi, litigi con le fidanzate, il rischio di un sasso in testa, o sul parabrezza. E tutto questo mica per andare a San Siro, e neanche, chessò, all’“Adriatico”, allo “Zaccheria”, al “Liberati”. Stadi con un certo fascino, una certa storia. Stadi, perlomeno. No. Questi ogni due settimane macinavano chilometri e superavano ostacoli, come amavano cantare, per ritrovarsi nella migliore delle ipotesi su quattro gradoni sbrecciati, su una tribunetta metallica prefabbricata, quando non proprio su una cunetta di terra dietro una rete di protezione. E i biglietti non costavano neanche poco. Cosa li spingeva? Forse qualcosa di simile a ciò che lo faceva tuffare, alla sua età, su quei campi di patate, lui che il prato di San Siro l’aveva conosciuto davvero.
Man mano che si dirigeva al piccolo trotto verso l’area avversaria, il coro era sempre più lontano. Continuava però a sentirli, i suoi tifosi, nonostante la crescente interferenza del resto dello stadio, che accompagnava il suo coast to coast con bordate di fischi ed insulti. Una vera bolgia: cinquantamila che ti danno addosso fanno tremare le gambe, ma sono un mostro anonimo. «Questi sono cinquecento – pensò – ma è come se li sentissi uno per uno. Se mi danno del figlio di puttana, non è una volgarità gratuita da tifoso: mi sembra che ce l’abbiano proprio con mia madre».
All’altezza del centrocampo si girò verso la tribuna stampa. «Chissà cosa starà dicendo quello là», mormorò fra i denti, sorridendo impercettibilmente. “Quello là” era Vanni Musciacchio, intramontabile radiocronista della sua squadra, uno che per imparzialità e self control dava dei punti al miglior Pellegatti. Più di una volta lo si era sentito perdere il fiato e dare fondo al suo repertorio di iperboli di seconda mano solo per raccontare innocue azioni di alleggerimento, per giunta a risultato acquisito. Ora che la sorte lo aveva messo di fronte a un rigore all’ultimo minuto che rischiava di sbloccare una partita decisiva, il rischio di infarto, o almeno di orgasmo multiplo, era altissimo. E per di più tirava un portiere.
“Il Chilavert delle Murge”, così l’aveva ribattezzato quel frescone, né si può dire che ci avesse messo dell’ironia. Troppo fesso? Forse no: solo troppo appassionato, che poi è un po’ la stessa cosa. Laterza invece era abbastanza sveglio da cogliere la comicità di quell’appellativo, ma non così disincantato e modesto da non esserne in fondo orgoglioso.
Arrivato nell’altra tre quarti, incrociò il portiere avversario, che gli strinse la mano senza guardarlo negli occhi e proseguì in direzione degli spogliatoi.
«Che fai?!» gli urlò stupito Laterza.
«Non hai visto? Mi ha mandato fuori».
Il portiere espulso in seguito al fallo da rigore, le sostituzioni esaurite, toccava a un giocatore di movimento cercare di opporsi al suo tiro. Musciacchio stavolta rischiava davvero di lasciarci le penne. «Questa è veramente buffa» pensò Laterza, ma centinaia di persone sugli spalti e a bordo campo non sembravano trovarci nulla da ridere.
Martino Mascellaro non ebbe esitazioni. Appena vide il portiere pietrificato dal cartellino rosso, gli si avvicinò e si fece dare maglia e guanti.
«Ma come, un attaccante?» gli chiese il suo stopper.
«E perché, un difensore è più portiere di un attaccante?» lo zittì lui. Non faceva una piega: il portiere è ugualmente diverso da tutti gli altri. A quel punto meglio che in porta ci andasse un rigorista. E meglio, ma questo non lo disse, il cannoniere, il capitano, l’idolo dei tifosi.
“Il bomber”, lo avevano sempre chiamato. “Di categoria”, aggiunsero presto, come una condanna. Bastano più di centocinquanta gol nelle serie minori per avere un’occasione nel calcio che conta? Non bastano. Mascellaro lo capì da solo, molto prima che i suoi trent’anni glielo confermassero. Ai giornalisti e ai tifosi, che di tanto in tanto gli domandavano perché, di solito rispondeva «Forse non avevo faccia e cognome giusti». Di sicuro anche prendere a cazzotti un allenatore non aveva giovato alla sua carriera, benché gli avesse permesso, unica volta, di apparire sulla Gazzetta prima di pagina dieci.
Così iniziò il suo viaggio in provincia: “lo zingaro del gol”, altro regalo di qualche cronista originale. Fu sempre e solo Puglia, la sua Puglia, ma la girò davvero tutta. Ormai non c’era terreno, curva o spogliatoio che non gli risultasse familiare. Così come familiari, quasi una parte di sé, erano la luce e i colori della sua terra. La sua figurina, se mai ne avesse avuta una tutta per sé, sarebbe stata illuminata dal sole basso di un pomeriggio invernale, di quelli che rendono il cielo blu cobalto, il prato di un verde caldo e saturo, e le gradinate dello stesso bianco della cattedrale di Trani.
C1, C2 o D, per lui faceva poca differenza. Più che la categoria inseguiva l’ingaggio, ché soldi non ne giravano tanti, ma in compenso c’era sempre un presidente che voleva mettere su uno squadrone. E lui era il primo nome sul taccuino. “Bomber di categoria”: una condanna ma anche una garanzia. Mascellaro segnava ovunque, e ovunque era adorato. Il carattere ombroso e i modi bruschi, in campo si traducevano in agonismo e determinazione, che uniti all’agilità da brevilineo e a un ottimo sinistro significavano gol a valanghe. E il pubblico cosa vuole, gol o buone maniere? Per odiarlo, per tornare a chiamare cattiveria il suo agonismo o per rinfacciargli i congiuntivi sbagliati, aspettavano di ritrovarselo come avversario, in uno dei tanti derby che lui avvelenava con gol dell’ ex. Ma finché lo avevano dalla loro parte, lo trattavano da signore: autografi, inviti e a Natale cesti regalo da fare invidia a un primario. Il suo motto diventò “meglio primi in provincia che ultimi in città”.
Ora, di fronte a quello scherzo del destino e della regola dell’ultimo uomo, erano il carisma del leader, i meriti acquisiti sul campo a spingerlo fra i pali. In qualche modo gli toccava, o meglio se lo poteva permettere.
Indossò la maglia numero uno, enorme. Ne rimboccò le maniche e cercò di infilarla il più possibile nei calzoncini, perché non sembrasse una camicia da notte. A operazione ultimata la scritta dello sponsor gli correva pressappoco sull’ombelico. Si piazzò in porta ostentando naturalezza. Fece suoi i vezzi dei portieri consumati: i tacchetti sbattuti contro il palo, un solco coi piedi a tagliare a metà l’area di porta. Lo stadio prese a intonare il solito coro «Mascellaro Mascellaro-gol», e pazienza se questa volta il gol era un’eventualità da scongiurare piuttosto che da propiziare.
Laterza arrivò sul dischetto con un’ inquietudine insolita. In genere essere un portiere gli dava un vantaggio psicologico nei confronti del compagno di ruolo che si trovava di fronte. Questa volta il vantaggio era neutralizzato dal trovarsi un attaccante, un rigorista, come avversario. Cercò di calmarsi: «Ho fatto la A», si ripeté un paio di volte, sorvolando sul fatto che era più di dieci anni prima e che era stata soprattutto panchina.
Riprese fiducia, e guardò con sufficienza, quasi divertito, Mascellaro che si produceva nelle classiche manfrine pre-rigore: riaggiustare la palla sul dischetto, dimenarsi sulla linea di porta… «Vuoi decon-centrarmi? Ma falla finita, sono un portiere…».
Mascellaro dietro quelle caricature di numero uno mascherava il suo senso di inadeguatezza. Con quel gigante di fronte pronto a tirare si sentiva un po’ come un condannato davanti al plotone di esecuzione, o come l’orso meccanico del tiro a segno. Poi ragionò: «Non ho nulla da perdere». I rigori: quando è gol, tutto normale; quando li parano, il portiere è un eroe e chi ha tirato è un idiota. «Sono tutti cazzi tuoi, io lo so bene: sono un rigorista».
Finalmente il fischio.
Laterza scelse un angolo e prese una rincorsa decisa. Nel momento in cui colpì il pallone gli scappò un pensiero: vedere una bella parata non gli sarebbe poi dispiaciuto.
Mascellaro si mise in posizione, fece finta di studiare la rincorsa dell’avversario e poi si tuffò, a caso. Quando staccò anche il secondo piede da terra chiuse gli occhi e sognò il fruscio del cuoio sulla rete.
Pallafatù. Il calcio visto da Taranto
Pallafatù – Il calcio visto da Taranto
A cura di Giuliano Pavone
Prefazione di Gianni Carrieri
Racconti di: Peppe Aquaro, Cosimo Argentina, Giuseppe Barbalucca, Giuseppe Campanelli, Carlo Caprino, Roberto Cardone, Mimmo Carrieri, Lucia T. Ingrosso, Giuliano Pavone, Leo Spalluto, Massimo Stragapede, Marco Tarantino.
Disegni di Alessandro Guido
Pallafatù è un’antologia dedicata al calcio e a Taranto, firmata da dodici autori, tutti tarantini di nascita o di adozione. Fra di essi figurano professionisti e dilettanti della parola scritta. Alcuni sono noti, altri sconosciuti, la maggior parte è di giovane età. Tutti sono armati di talento ed entusiasmo.
Fra i diciannove scritti, suddivisi in sette capitoli, c’è chi ha lavorato di fantasia e chi ha raccontato la realtà, chi si è tuffato nel passato e chi si è concentrato sul presente. Si parla di Taranto, certo, ma anche di calcio, e il calcio è universale. Difficile per qualsiasi appassionato di pallone non immedesimarsi in certe narrazioni. Alcuni racconti si rifanno alla tribolata storia del Taranto e al tifo rossoblù, sterminato serbatoio di parole, aneddoti, emozioni. Altri si concentrano sul pallone, quello giocato in prima persona su campi, campetti, palestre, strade e piazze della città. Non manca neanche il punto di vista di chi non ama il calcio ma che, lungi dallo snobismo del “ventidue scemi in mutande”, coglie con acume i mille spunti che si celano dietro al rimbalzo di un pallone.
Il ricavato di Pallafatù servirà a finanziare attività di solidarietà sociale nel tarantino. Per la prima edizione sono stati prescelti due diversi progetti, promossi da altrettanti enti: l’ampliamento del servizio gratuito di asilo nido prestato dall’Ente Morale “Paolo VI” a Taranto Vecchia e la creazione di una piccola sala di incisione a cura del Comitato di Quartiere di Paolo VI, associazione “Venti del Sud”.
Al di là di tutto ciò, Pallafatù è un esperimento editoriale o se si preferisce il tentativo di coronare dei sogni. Abbinare calcio, cultura e solidarietà, e farlo in una città dove librerie e biblioteche non sono né numerose né affollate. Unire enti e persone diverse, mettendo da parte divisioni e gelosie per lavorare al conseguimento di uno scopo comune. Dare visibilità a dei talenti, in un ambiente culturale che sembra stagnante ma che in realtà nasconde una dinamicità insospettabile.
“Giocare a pallafatù” vuol dire calciare via il pallone a caso, senza un progetto preciso, ma “Palla, fa’ tu!” è anche un’invocazione: riconoscere il potere universale del calcio e cercare di convogliarlo verso finalità positive:
“Abbiamo preso i nostri sogni e li abbiamo affidati al potere del pallone: palla, fa’ tu!”
Pallafatù – Il calcio visto da Taranto
Teseo Editore, in collaborazione con l’Associazione Tarantonostra.com
Pagine: 184
Prezzo di copertina: € 10,00
In vendita nelle librerie di Taranto e via Internet
ISBN: 88-901072-6-X
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