Il commento, pubblicato sul Quotidiano di Taranto del 1° aprile, sulle vertenze lavorative e sulla disoccupazione a Taranto.
Ora che la crisi è arrivata dappertutto, si dice che a reagire meglio siano le zone che in crisi erano già da un pezzo, perché dotate di “anticorpi”. Fosse davvero così, Taranto sarebbe in una botte di ferro. Ma in buona parte è solo una bugia pietosa. Le vacche grasse del passato, per chi le ha avute, servono ancora da riserva e da ammortizzatore. A chi invece aveva già toccato il fondo, ora non resta che scavare.
Taranto poi, come spesso succede, fa storia a sé. Industria di stato e Marina Militare: in una città di stipendiati, il dilagare di disoccupazione e precariato è qualcosa di particolarmente spiazzante. Le vertenze sindacali e i sit in, pur sacrosanti, sono battaglie di retroguardia, buone solo per cercare di limitare i danni in attesa che quel modo di lavorare, nel giro di poche generazioni, scompaia del tutto. Prima se ne prende atto, meglio sarà, e per fortuna anche da queste parti qualcuno sta iniziando ad accorgersene.
Certo non saranno le lettere a Renzi, o a chiunque altro in sua vece, a tirarci fuori dai guai. Quelle sono solo la dimostrazione di come ancora sopravviva una certa mentalità assistenzialistica che identifica il potere con le persone che lo gestiscono. La stessa mentalità che porta tanti disoccupati tarantini – pur meritevoli di solidarietà – a chiedere aiuto (o elemosina) al sindaco e non ai servizi per l’impiego, evidentemente sconosciuti o ritenuti inutili.
Ma forse quella bugia pietosa che vorrebbe le aree povere più attrezzate delle altre a fare fronte alla crisi ha un fondo di verità. Un milanese che si trovasse a vivere a Taranto, o in Puglia, resterebbe sorpreso dal rapporto che qui si ha coi soldi. Sconcertato da come, anche in situazioni prettamente lavorative, spesso si dimentichi (per nobiltà d’animo o per sciatteria) che lo scopo ultimo dell’attività è il guadagno. Ma anche affascinato, forse commosso, dal modo in cui chiunque – fosse anche uno che porta a casa duecento euro al mese o un disoccupato – se gli stai simpatico insista per offrirti un caffè, una pizza, una cena.
Il fatto è che, come ha detto il regista salentino Edoardo Winspeare in una recente intervista a Vanity Fair, “qui nessuno ha soldi ma nessuno parla di soldi”. Il suo film “In grazia di Dio” racconta di alcune donne che reagiscono alla congiuntura economica negativa reinventandosi contadine, e barattando il prodotto del loro lavoro con altri beni di prima necessità. La piccola grande lezione di questa storia non sta tanto nelle teorie della decrescita felice e nel ritorno alla terra, concetti che portati all’eccesso rischiano di diventare stucchevoli cliché pauperisti. La lezione sta piuttosto nella la forza di volontà delle persone, soprattutto di quelle più umili, l’abitudine a soffrire e a cambiare rapidamente i propri orizzonti. Soprattutto, il poter attingere, come estrema risorsa a quella che dovrebbe essere la prima, di risorsa: l’umanità e la capacità di aiutarsi a vicenda. Una risorsa, almeno questa, di cui al sud siamo – o eravamo? – molto ricchi.