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Dalla B sfumata alla D. Ma conta solo la maglia

Articolo uscito sul Quotidiano di Puglia del 24 agosto.

Offrirsi come vittime sacrificali al Grottaglie sperando di limitare le perdite non è esattamente il tipo di partita che si sognava da bambini per la propria squadra. Eppure ogni tifoso, di qualsiasi club, per dirsi davvero tale, dovrebbe vivere un’esperienza come quella capitata ai supporters rossoblu l’altra sera al D’Amuri. Perché solo grazie a una partita del genere si può capire fino in fondo cos’è questo amore per la maglia di cui tanto si parla, spesso a sproposito.
“Per la maglia” si cantava sui gradoni, mentre le due squadre entravano in campo e sotto le maglie rossoblu battevano all’impazzata i cuori di undici ragazzini piccoli da fare tenerezza. E davvero, l’altra sera, del Taranto, oltre alle maglie e al cuore c’era poco altro. Non c’erano i palcoscenici importanti, non c’erano i traguardi prestigiosi, non c’era la continuità societaria (era la prima partita del Taranto F.C. 1927), non c’era la preparazione atletica, non c’era la famosa “amalgama” resa immortale dal Cavalier Pignatelli (“E accattàme pure a ijdde”…), non c’era un solo giocatore conosciuto o comunque dotato di una significativa esperienza. C’erano però centinaia di tifosi che, con una passione che rasenta la follia, si sono presentati all’appuntamento con immutato calore, facendo finta che le vicende degli ultimi mesi – capaci di far vacillare le fedi più incrollabili, ma evidentemente non le loro- non li abbiano scalfiti. Così, con cori e vessilli (“Cambia il vento ma noi no” recitava uno di questi) si sostenevano quegli undici bimbi spauriti chiamati a impersonare l’idea astratta del Taranto. Fra autoironia, sincero entusiasmo e un po’ di magone, si studiavano i giovani e sconosciuti virgulti. Il numero sette con un paio di buone giocate guadagna l’approvazione degli spalti, ma ce ne fosse uno che sappia come si chiami. Allora dal pubblico si leva una voce: “Scusa, sette, come ti chiami?”. E siccome quello giustamente pensa a giocare, si ripiega su un coro anonimo: “Sette! Sette!”.
Dopo otto minuti eravamo già sotto di due gol. “Non fa niente, va bene lo stesso”, si filosofeggiava in gradinata, e giù scroscianti applausi. Si era mai visto un simile spirito decoubertiniano? No: presto smetterà nuovamente di vedersi, e si tornerà a pretendere i risultati ad ogni costo. Il risultato invece l’altra sera non contava. Però di prendere un cappotto dal Grottaglie, senonaltro per motivi climatici, si sarebbe fatto volentieri a meno. I ragazzini ce l’hanno messa tutta, e ci hanno accontentato. Non solo hanno evitato la temuta goleada, ma hanno anche accorciato le distanze, prima che gli avversari fissassero il punteggio sul 3-1. Quando il numero dieci (solo dopo abbiamo scoperto che si chiamava Curri) ha messo a segno il primo gol del nuovo Taranto, il boato è stato sonoro, gioioso, coinvolgente. Ci siamo abbracciati, baciati, dati pacche sulle spalle e abbiamo capito che – anche se può sembrare una forma di consolazione – la serie in cui si gioca è solo un piccolo dettaglio: ciò che conta è continuare ad esserci con l’orgoglio, l’allegria, la grinta e lo spirito comunitario di sempre. E noi, nonostante tutto, siamo ancora qui.