Archivi tag: Taranto F.C. 1927

La tela di Penelope

Quotidiano 2Articolo pubblicato sul Quotidiano di Puglia (edizione di Taranto) martedì 15 ottobre.

Alla luce dei risultati ottenuti, del gioco espresso e del clima creatosi, l’allontanamento di Maiuri è apparso inevitabile. Esprimersi oggi, col senno del poi, sull’opportunità della scelta di affidargli la squadra e sulla qualità della rosa allestita da lui e De Solda, lascerebbe il tempo che trova.
Piuttosto, sarebbe forse utile svolgere una riflessione più ampia sui motivi che hanno portato la scorsa estate a smantellare (appena tre i giocatori riconfermati) e ricostruire completamente una squadra che pure aveva concluso il campionato in modo promettente. Una riflessione, questa, che vada al di là dei giudizi di valore su chi è stato mandato via e su chi è subentrato.
Perché il vizio di fare e disfare gli organici, anche quando non sembrava proprio necessario, nella piazza tarantina c’è sempre stato. Tanto da suscitare un sentimento di grande solidarietà nei confronti degli statistici e compilatori di almanacchi delle cose rossoblu, i quali ogni anno, anzi a ogni sessione di mercato, si trovano alle prese con decine e decine di nomi nuovi.
Questo atteggiamento in passato era coerente con situazioni di grande instabilità societaria, con modalità di gestione avventuristiche e dal fiato corto. Ricordiamo tutti quale fosse l’andazzo: arriva il nuovo presidente (o in alternativa il nuovo dirigente), manda a casa tutti (anche quelli che avevano faticosamente tenuto in piedi la baracca) e avvia la rivoluzione a suon di uomini nuovi e di improbabili promesse.
Fa specie che anche la nuova proprietà, che pure si è posta in forte discontinuità con gli errori del recente passato, sia caduta nella tentazione di Penelope, che fa e disfa la tela senza mai completarla. La stessa proprietà che dimostra serietà e lungimiranza pensando ai bilanci e al settore giovanile. A partire dalla fondazione del Taranto F.C. 1927, l’ambiente calcistico tarantino di progressi ne ha fatti parecchi. Evitare l’andirivieni intensivo e spesso insensato di tecnici e giocatori forse sarebbe un ulteriore segnale di maturità. Chissà se nella prossima sessione di mercato lo si terrà presente.

“Ce stè ride, stuè?!” sul Quotidiano

Ecco il pezzo uscito in prima pagina sul Quotidiano (edizione tarantina) del 30 gennaio, a commento del colorito litigio fra dirigenti del Taranto FC verificatosi nella sala stampa dello stadio Iacovone.

Da domenica pomeriggio una nuova frase si fa largo prepotentemente nella gloriosa storia del calcio rossoblu. Dopo gli “sbroccoli” leggendari del Cavalier Pignatelli (“Manca l’amalgama? E accattàme pure a idde”) e quelli per intenditori di Donato Carelli (“Sono rimasto putrefatto”: intitolarono così anche un libro), dopo le profezie poco lungimiranti (“Stè parlate”, e poi gli avversari giocavano col sangue agli occhi) e le scene di lotta di classe à la D’Addario (“Tanto i giocatori non muoiono di fame”), è la volta di “Ce stè ride, stuè?!”.
Sarà che davvero non c’è niente da ridere, nel calcio e soprattutto altrove, sarà che ormai ne abbiamo viste di tutti i colori, ma la gazzarra fra dirigenti andata in scena nella sala stampa dello Iacovone sembra aver suscitato fra i tarantini più divertimento che sdegno. Piuttosto che curarsi della resa dei conti di una società di serie D, si preferisce godere dell’icastica musicalità di quella che è diventata la sua frase-simbolo.
“Ce stè ride, stuè?!” è tarantino nel suono – secco e scoppiettante – e nel senso. È un’espulsione di rabbia per somma di ammonizioni: io potrei (potrei…) pure tollerare che mi hai fatto incazzare, ma se mi fai incazzare e poi ridi pure “da sopra”, be’, no, questo è troppo. E il troppo, si sa, stroppia (spesso anche di mazzate).
Così, “Ce ste ride, stuè?!” si diffonde a macchia d’olio. Non sarà “Il dado è tratto” e neanche “I have a dream”, ma è perfetta per ricamarci su. C’è chi propone di inserirla come motto nello stemma della squadra o all’entrata dello stadio, chi fonda l’immancabile gruppo Facebook e chi addirittura la trasforma in un travolgente rap, su base Gangnam style. Il tarantino – che è sfottente ma anche autoironico – guarda, ascolta e, se gli scappa una risata, incassa con invidiabile fair play il suo bravo “stuè!”. Sa di esserselo meritato.

Dalla B sfumata alla D. Ma conta solo la maglia

Articolo uscito sul Quotidiano di Puglia del 24 agosto.

Offrirsi come vittime sacrificali al Grottaglie sperando di limitare le perdite non è esattamente il tipo di partita che si sognava da bambini per la propria squadra. Eppure ogni tifoso, di qualsiasi club, per dirsi davvero tale, dovrebbe vivere un’esperienza come quella capitata ai supporters rossoblu l’altra sera al D’Amuri. Perché solo grazie a una partita del genere si può capire fino in fondo cos’è questo amore per la maglia di cui tanto si parla, spesso a sproposito.
“Per la maglia” si cantava sui gradoni, mentre le due squadre entravano in campo e sotto le maglie rossoblu battevano all’impazzata i cuori di undici ragazzini piccoli da fare tenerezza. E davvero, l’altra sera, del Taranto, oltre alle maglie e al cuore c’era poco altro. Non c’erano i palcoscenici importanti, non c’erano i traguardi prestigiosi, non c’era la continuità societaria (era la prima partita del Taranto F.C. 1927), non c’era la preparazione atletica, non c’era la famosa “amalgama” resa immortale dal Cavalier Pignatelli (“E accattàme pure a ijdde”…), non c’era un solo giocatore conosciuto o comunque dotato di una significativa esperienza. C’erano però centinaia di tifosi che, con una passione che rasenta la follia, si sono presentati all’appuntamento con immutato calore, facendo finta che le vicende degli ultimi mesi – capaci di far vacillare le fedi più incrollabili, ma evidentemente non le loro- non li abbiano scalfiti. Così, con cori e vessilli (“Cambia il vento ma noi no” recitava uno di questi) si sostenevano quegli undici bimbi spauriti chiamati a impersonare l’idea astratta del Taranto. Fra autoironia, sincero entusiasmo e un po’ di magone, si studiavano i giovani e sconosciuti virgulti. Il numero sette con un paio di buone giocate guadagna l’approvazione degli spalti, ma ce ne fosse uno che sappia come si chiami. Allora dal pubblico si leva una voce: “Scusa, sette, come ti chiami?”. E siccome quello giustamente pensa a giocare, si ripiega su un coro anonimo: “Sette! Sette!”.
Dopo otto minuti eravamo già sotto di due gol. “Non fa niente, va bene lo stesso”, si filosofeggiava in gradinata, e giù scroscianti applausi. Si era mai visto un simile spirito decoubertiniano? No: presto smetterà nuovamente di vedersi, e si tornerà a pretendere i risultati ad ogni costo. Il risultato invece l’altra sera non contava. Però di prendere un cappotto dal Grottaglie, senonaltro per motivi climatici, si sarebbe fatto volentieri a meno. I ragazzini ce l’hanno messa tutta, e ci hanno accontentato. Non solo hanno evitato la temuta goleada, ma hanno anche accorciato le distanze, prima che gli avversari fissassero il punteggio sul 3-1. Quando il numero dieci (solo dopo abbiamo scoperto che si chiamava Curri) ha messo a segno il primo gol del nuovo Taranto, il boato è stato sonoro, gioioso, coinvolgente. Ci siamo abbracciati, baciati, dati pacche sulle spalle e abbiamo capito che – anche se può sembrare una forma di consolazione – la serie in cui si gioca è solo un piccolo dettaglio: ciò che conta è continuare ad esserci con l’orgoglio, l’allegria, la grinta e lo spirito comunitario di sempre. E noi, nonostante tutto, siamo ancora qui.