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L’intervista a Sergio Caputo

91878Il testo dell’intervista a Sergio Caputo, pubblicata sul Quotidiano di Puglia di lunedì 10 marzo.

Album, libro, tournée. Sergio Caputo ha fatto le cose in grande per celebrare il trentennale (1983-2013) del suo album d’esordio, “Un sabato italiano”. Le canzoni del celebre disco sono state incise nuovamente, in versione più jazz, con l’aggiunta di due brani inediti, dando vita a un CD dal titolo “Un sabato italiano 30”. L’operazione revival si arricchisce poi di un libro, “Un sabato italiano memories” (Mondadori, prefazione di Carlo Massarini), in cui si racconta il “making of” delle canzoni e più in generale si rievocano le atmosfere e il periodo in cui sono nate. Infine, un tour teatrale sta attraversando l’Italia, con l’aggiunta in progress di nuove date e la promessa di un’appendice estiva.

Sergio Caputo, sono passati trent’anni da “Un sabato italiano”. Cosa è cambiato nel frattempo?

Il cambiamento più grande è stato quello tecnologico. Negli anni 80 c’erano già i primi computer ma nessuno pensava che potessero incidere così a fondo nelle nostre vite. Ma al di là di questo, trovo che l’Italia non sia molto cambiata da allora, né dal punto di vista del costume né da quello di una modernizzazione autentica e strutturale: siamo ancora fermi al pollaio politico giornaliero.

I primi 80 sono stati anni un po’ magmatici, di passaggio e trasformazione…

Musicalmente sono stati spesso criticati – soprattutto da chi è rimasto molto legato agli anni 70 – ma a sproposito, perché molto di ciò che ascoltiamo ora è nato proprio in quel periodo. Nel libro sono molto critico con gli anni 70 italiani, perché proprio mentre nel resto del mondo si godeva della musica migliore di sempre, qui ci si sparava e sprangava per le strade. E’ stato un vero furto generazionale. Anche musicalmente, il dogma dell’impegno esisteva solo da noi: nessuno ha mai detto a Neil Young che doveva cantare cose sociopolitiche. La musica come arte secondo me ha la missione di far stare bene la gente.

Cosa significa questo trentennale per “Un sabato italiano”?

Significa essersi resi conto che un album che avevo scritto trent’anni fa è diventato un classico: ha superato la barriera del tempo e toccato nuove generazioni. Da qui la necessità di inciderlo in un modo che possa farlo durare anche altri cinquant’anni. Anche perché né i testi né le musiche di quel disco sono legati a un periodo particolare, e solo gli arrangiamenti – con l’uso dei sintetizzatori applicato al jazz e allo swing – risentivano della moda dell’epoca e necessitavano di un aggiornamento.

Il remake è anche un modo di riappacificarsi con il Caputo classico, quello che nelle fasi successive della tua carriera sembravi volerti scrollare di dosso?

C’era un po’ di insofferenza per la gabbia in cui mi stavano rinchiudendo. Ma ho sempre inseguito il mio istinto, non ho mai fatto niente programmaticamente. A un certo punto ho sentito di voler andare in direzioni diverse e sono contento di averlo fatto, perché se avessi continuato a incidere sempre lo stesso album ora non sarei qui a fare concerti coi teatri pieni e i ragazzi che conoscono i miei testi a memoria.

Come si trova un musicista che ha sempre giocato con le parole nel ruolo di scrittore?

Molto bene. Mi piace il fatto di non essere vincolato, come nelle canzoni, dalla metrica, dalle rime e dalla durata. E poi, il ruolo di musicista impone relazioni sociali, tour, interviste… Invece i libri li puoi scrivere da solo, a casa tua, senza neanche vestirti, magari nella vasca da bagno. Scrivere libri per me è un grande piacere, e credo che sia una dimensione che porterò avanti.

Anche perché, se il mercato editoriale è in crisi, quello musicale lo è anche di più…

Soprattutto in Italia la musica sta vivendo un momento complicato, perché le danno sempre meno spazio. Negli Stati Uniti ci sono le stazioni radio dedicate a un genere musicale, qui invece può capitare di sentire in sequenza Bowie, la Zanicchi e – più raramente, perché non mi hanno mai passato molto – Caputo. Per promuovere in tv libro e album sono dovuto andare a “La prova del cuoco”, dove peraltro non ero fuori luogo perché sono uno chef, ma questo è un altro discorso.