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Due ragazzi

Ha suscitato apprezzamento il racconto, ripubblicato da Giuliano in una nota su Facebook, dal titolo Due ragazzi, tratto dal libro Milano in cronaca nera (Newton Compton, 2010), scritto con Lucia Tilde Ingrosso.

Dario – andatura dinoccolata e jeans di marca – cammina sfrontato lungo le vie della capitale. Non è il colore della sua pelle ad attirare l’attenzione, ma i ghirigori che un esperto rasoio ha disegnato sui suoi capelli crespi e cortissimi. La gente posa lo sguardo su quella strana acconciatura e incrocia degli occhi che conosce, perché li ha visti in televisione e sui giornali sportivi. E’ lui? E’ lui. Alcuni tirano dritto, altri si fermano e girano la testa per vederlo mentre si allontana, altri ancora dicono il suo nome ad alta voce e lo salutano. Poi, dei tizi spuntati dal nulla prendono a seguirlo. Lo affiancano e lo accerchiano. Anche loro lo chiamano ad alta voce, ma non con il suo nome. Non sono complimenti, quelli che gli rovesciano addosso e, se il concetto non fosse chiaro, qualcuno gli lancia pure delle banane. Gli occhi di Dario invece lanciano saette. Sono dei poveracci, si dice, poveracci, ignoranti e frustrati. Io in un mese guadagno quanto tutti loro in cinque anni. Ma le offese gli bruciano lo stesso, e ogni volta che succede è un po’ peggio.

Scarpe da tennis, jeans strappati e maglietta fuori dai pantaloni, Ibrahim, saluta tutti ed esce con gli amici.
«Ibou, dovresti vestirti un po’ meglio. Se ti vesti così, ti prenderanno per un vù cumprà…» Suo padre indossa pantaloni grigi e camicia celeste.
«Ma papà», Ibou gli spara un sorriso disarmante dei suoi, «io mi vesto come gli altri miei amici, qual è il problema?»
Rapido scambio di occhiate fra papà e mamma. Lei invece ama vestirsi alla maniera del suo paese, con abiti drappeggiati di colori caldi e sgargianti. «Il problema è che tu non sei come gli altri tuoi amici», replica il padre, pacato.
«Ecco, appunto. Quindi non saranno i vestiti a cambiare le cose». Ibou scoppia a ridere e con due salti è già in strada.

Del paese dei suoi genitori, Dario sa pochissimo. E pochissimo sa anche dei suoi genitori, quelli veri, che l’hanno abbandonato piccolissimo in un ospedale lombardo, dopo aver scoperto che aveva bisogno di una delicata operazione. Di un bimbo malato non sapevano cosa farsene. Chissà adesso, la rabbia.
Anche mamma e papà adottivi sanno poco dei genitori naturali, e ancora meno del loro paese. Certo, hanno studiato, ma cosa sanno davvero di come si vive là? E del perché si viene qua? E di come si può abbandonare un bambino? Eppure hanno cercato di fare il possibile. Arrivata l’età giusta, a Dario hanno fatto un bel discorso, gli hanno messo in mano dei libri (che lui non ha letto) e gli hanno detto che quando sarebbe diventato abbastanza grande, se avesse voluto, gli avrebbero dato i soldi per fare un viaggio in Africa. Dario, dei soldi dei genitori ora non ha più bisogno: ne ha tantissimi, è lui che li dà a loro. Ma in Africa non ci è ancora andato, e non sa se ci vuole andare. Forse ha paura di sentirsi estraneo, lui che estraneo si sente tante volte anche nel suo paese, l’Italia. Forse, semplicemente, non gli interessa.

Ibou, il razzismo l’ha imparato soprattutto dai racconti dei genitori. Certo, a scuola qualcuno che faceva il cretino l’ha incontrato, una volta gli è toccato anche di fare a botte, ma lui di amici, sia bianchi che neri, ne ha un sacco, e di tutto il resto gli importa poco. I suoi, invece, gli hanno parlato dei primi tempi, della clandestinità, delle fatiche bestiali e delle umiliazioni, di quanto era stato duro guadagnarsi quel minimo di tranquillità e di considerazione grazie a cui ora lui poteva andare a scuola e uscire la sera a divertirsi.
In Africa non c’è mai stato. Sa che i suoi sono dovuti scappare, ma l’Africa per lui resta quella fiabesca e variopinta dei racconti che gli sussurrava sua mamma, quando era piccolo, per farlo addormentare. L’Africa per Ibou è sua mamma: bellissima, la pelle lucida e senza una ruga, i denti candidi e i vestiti dei colori della terra.

Il pallone fra i piedi Dario l’ha sempre avuto. Non si ricorda il momento in cui ha deciso che quella sarebbe stata la sua vita. Non si ricorda di aver mai voluto fare altro. Sa solo che già nel campetto dell’oratorio era il più alto, il più veloce e il più bravo. E, come se non bastasse, era quello che aveva più carattere. Bravo con i piedi, ma capace di farsi rispettare anche con la lingua e con le mani. Forse perché sentiva di dover dimostrare qualcosa in più degli altri. Forse, semplicemente, perché era un predestinato.

Ibou non ha mai sentito le sue origini come un problema. Ai suoi amici dice «Sono italiano, e in più sono africano». Nessun conflitto, piuttosto una somma, anche se sa che non tutti la pensano come lui. Al centro sociale forse ci va proprio perché lì nessuno fa caso al suo colore. Anzi, a volte ha l’impressione che siano più gentili con lui proprio perché è nero. Forse invece ci va perché lì si balla la musica che gli piace. O forse, semplicemente, perché è l’unico posto dove con meno di dieci euro ci si può divertire tutta la notte.

Sei un predestinato quando, a ogni passo della trafila delle giovanili, sei sempre il più bravo, anche se ti mettono a giocare con quelli più grandi di te. Sei un predestinato quando devono cambiare i regolamenti per farti giocare in C1, perché non era previsto che un ragazzino arrivasse così in alto e così in fretta. Sei un predestinato quando le migliori squadre del mondo chiedono di te, e quella che è riuscita a strapparti alla concorrenza, dopo pochissimo ti getta nella mischia.
Eppure, non ha fatto ancora niente. Il mondo è pieno di predestinati che hanno preso a calci il loro talento. Dario questo lo sa. Ma non è il campo a fargli paura. Lì sono gli altri a doversi spaventare. Ci sono altri tipi di prove che gli si parano davanti, prove cui è sottoposto solo lui. E, per quanto ne abbia superate già tante, non è sicuro di riuscire a farcela ancora. Farsi largo fra difensori di cui da piccolo aveva il poster in camera non è un problema. Coprire la fascia, fare i movimenti che gli indica il Mister, contro l’istinto che lo manderebbe sempre avanti, neanche questo è un problema. Sopportare le provocazioni dal campo e dagli spalti: è questo il compito più difficile per Dario. E quella cattiveria agonistica, quel ribollire di sangue che l’ha aiutato a emergere, in questo non l’aiuta. Basta pochissimo per gettare tutto alle ortiche, e lui ci va vicino più volte.
Il diverso dà fastidio quando è povero, perché ruba, fa l’accattone o scavalca in graduatoria gli altri poveri. Ma il diverso dà fastidio anche quando è ricco e affermato, perché mette in discussione le tue sicurezze. L’unica è essere inattaccabili, porgere l’altra guancia. Agli altri campioni, qualche capriccio viene perdonato. A lui no. E più sa di dover rigare dritto, più non lo fa.

C’è sempre qualcosa di sbagliato quando chi rientra da una notte di divertimento incrocia chi sta uscendo per andare a lavorare. O, come in quel caso, qualcuno che la notte l’ha passata in piedi a servire panini con la porchetta a puttane e balordi in un baracchino davanti alla stazione. Le cose partono male. Il lavoratore è stanco e frustrato, si sente preso per il culo, e per questo si crede in diritto di fare ciò che vuole. Il tiratardi ha in corpo un’euforia un po’ stupida, forse proprio perché sa che prima o poi quella vita toccherà anche a lui. Il padre di Ibou gliel’ha detto: se quest’anno non vieni promosso, a settembre vai in fabbrica come me.
I ragazzi vogliono mettere qualcosa sotto i denti. Sarebbe un momento come tanti, un rapido scambio fra monete e snack, ma si trasforma in una questione di principio. Mai fare questioni di principio, soprattutto in una grande città, alle cinque di mattina e con una notte insonne sulle spalle.
“Ci stanno provocando”, pensano i due baristi, padre e figlio, e continuano ad armeggiare intorno al furgone.
“Se fossimo bianchi ci avrebbero già serviti”, pensano i ragazzi, Ibou fra loro, e sentono montare una rabbia antica.
Milano guarda, immobile e tossica. Luci gialle e, ancora per poco, neanche il solito brontolio di auto in circonvallazione.
Lo stallo si rompe, improvviso e senza ritorno: i ragazzi entrano nel bar, agguantano un paio di confezioni e scappano. I baristi, da fuori, li vedono correre con qualcosa in mano e si lanciano all’inseguimento. Il destino è già scritto, ma loro ancora non lo sanno.

Un giorno arriva la convocazione della nazionale ghanese. Dario rifiuta senza esitazioni. La maglia azzurra è più prestigiosa di quella bianca del Ghana, e Dario non ha alcun dubbio che presto arriverà a indossarla. Ma il punto è un altro: «Io sono italiano», dice Dario, «e giocherò con la nazionale italiana». Una frase ovvia, eppure desta scalpore. Perché? Saranno gli spalti di un famoso stadio del nord Italia a chiarire quello che in molti pensano. Fra i soliti versi della scimmia, spunta fuori un coro che fino a quel momento era stato ascoltato solo nei palazzetti del Basket.
«Non ci sono negri italiani».
Non ci sono negri italiani. Cosa significa? Dario guarda interrogativo uno dei suoi compagni più esperti, di colore e francese. Lui scrolla le spalle: con la maglia della sua nazionale ha vinto pure i Mondiali, e nella sua lunga carriera nessuno si è mai sognato di dirgli che non esistono negri francesi. Dario non trova risposte. Tutti gli dicono di non farci caso e di continuare a giocare.

Corrono. Sono più veloci. Scappassero, non li prenderebbero. Ma perché scappare? Siamo di più, e non abbiamo fatto niente di grave. Sono due, pensa Ibou, e il grande ha più o meno l’età di mio padre. Cosa direbbe mio padre a uno che gli ha rubato dei biscotti? Gli direbbe di avere rispetto, di chiedere scusa. O forse non direbbe niente.
Invece il vecchio è inferocito. Sta pensando che quando andava in giro a fare rapine se la spassava anche lui la notte. Adesso invece gli tocca sudarsi il pane e farsi fregare da quattro mocciosi, per giunta negri. La mazza della claire ce l’ha il figlio, ma è il padre che lo istiga a usarla.
Ibou ha ancora in mano il pacco di biscotti, un cilindro stretto e lungo. Chi gli sta di fronte invece ha una spranga di metallo. I biscotti sono quelli famosi, metà normali metà al cioccolato. Prima di essere trascinato a terra, a Ibou sembra di vedere un grande cartellone che li pubblicizza. Ci sono due ragazzini, uno bianco e uno nero, che si danno il cinque.

«Dire negro di merda non è razzismo», sbuffa l’impiegato al bar il lunedì mattina, mentre sfoglia distrattamente la Gazzetta poggiata sul frigo dei gelati. Non è un ultrà, non ha mai lontanamente pensato di partecipare a spedizioni punitive. “E’ un modo come un altro per offendere l’avversario. Fosse stato bianco, gli avremmo detto figlio di puttana”. Figlio di puttana, appunto, mica bianco di merda.
«Anche noi abbiamo giocatori di colore in squadra», dicono quelli che tifano il bianco e il nero, «potremmo mai essere razzisti?» A rispondere, positivamente, sono i supporter nerazzurri, che scioperano contro la punizione assegnata ai rivali. Come dire «offendete pure i nostri negri, così noi offendiamo i vostri».
E Dario si ritrova solo. L’ultima illusione – ti offendono perché sei l’avversario, hanno paura di te – è caduta. Anzi, il diritto al razzismo ha compiuto il miracolo di mettere d’accordo due tifoserie divise dalla più grande rivalità degli ultimi anni. Da solo Dario continuerà a giocare, anche in Nazionale, anche per chi da lui non si sente rappresentato. Giocherà sul filo della rabbia. Quella rabbia che gli dà una marcia in più, ma che prima o poi lo farà cadere. Perché appena ne combinerà una un po’ più grossa, troverà qualcuno pronto a fargli pagare quel peccato originale. «Visto?» canteranno allora vittoria i viscidi messaggeri delle profezie autoavveranti, «non lo offendevamo perché è negro, ma solo perché è una testa di cazzo».

Il papà di Ibrahim, per tutti Ibou, ha negli occhi una dolcezza senza nome. «Abbiamo fiducia nella giustizia», dichiara, e basterebbe questo per capire che non è italiano.
Di solito quando si compie un delitto efferato e per futili motivi, qualcuno inizia a invocare il ripristino della pena di morte. In questo caso non accade, chissà perché.
«Era un ladro, se l’è cercata», commenta il professionista al bar, sfogliando un giornale gonfio di condoni e depenalizzazioni. Padre e figlio hanno precedenti penali. Per fortuna però nessuno li ha sprangati.
«Era un ladro, che c’entra il razzismo?» si chiede l’uomo ben vestito, dopo aver bevuto l’ultima goccia di caffè con un teatrale scatto della testa all’indietro.
Che c’entra il razzismo? La domanda rimbalza in tribunale. “Negro di merda”, “cioccolatino”, “vi bruciamo tutti”. «E’ vero, abbiamo detto così, ma era giusto per offenderli, fossero stati bianchi li avremmo offesi in altro modo». In altro modo, appunto. Così, più o meno, dicono gli imputati e il loro avvocato. E il giudice dà loro ragione, escludendo fin da subito l’aggravante del razzismo. Non l’hanno ucciso perché era di colore. Forse è anche vero. Però i lunghi anni di prigione il più vecchio dei due baristi li passerà in compagnia della parte più torbida della sua anima. Forse davvero non l’ha ucciso perché era nero, almeno non consapevolmente. Ma se quel ragazzo spaventato con la testa sull’asfalto avesse avuto degli altri lineamenti, avesse parlato con un accento più familiare, se insomma fosse stato almeno un po’ somigliante a suo figlio, lui, a suo figlio, non avrebbe mai detto di colpire.