Articolo pubblicato sul Quotidiano di Puglia del 24 novembre.
“L’Italia è un paese di scrittori”. A Masterpiece – l’X-Factor dei libri trasmesso da Raitre (seconda puntata stasera alle 22,50) – è bastata una frase per spiegare l’idea forte su cui si basa il programma. Il format, però, nasconde un problema: il talento letterario è meno televisivo di quello musicale. Se per misurare la stoffa di un cantante basta sentirlo eseguire dei brani, per comprendere la qualità di un romanzo non è sufficiente ascoltarne frettolosamente dei brevi estratti – il massimo che si possa fare in tv.
E’ anche (ma forse non solo) per questo che a Masterpiece l’accento, più che sulla scrittura sembra posto sugli scrittori. Gli scrittori, in uno show televisivo (ma forse non solo lì), devono essere innanzitutto dei personaggi. E, secondo un cliché sempre in voga, il personaggio-scrittore deve essere uno che ha dei problemi. “Cosa fai nella vita?” chiedono infatti i giudici di Masterpiece al primo concorrente. E lui: “soffro”. Tutti gli scrittori in gara hanno biografie adeguate a questa dichiarazione programmatica, fra ricoveri in ospedali psichiatrici, soggiorni nelle patrie galere, lavori massacranti in fabbrica, anoressia, tentati suicidi, rapporti difficili con l’altro sesso e coi genitori, questi ultimi quasi tutti morti. Come se il disagio esistenziale fosse condizione necessaria, o addirittura sufficiente, per essere scrittori di successo. Una regola smentita in primo luogo proprio dai tre giudici, tutti socialmente ben inseriti e all’apparenza “risolti”.
Messa in questi termini, con gli scrittori-personaggi e le loro storie private in primo piano, ecco che anche il mondo dei libri diventa telegenico. Del resto Masterpiece non è altro che un inchino dell’editoria alla tv: portando la selezione del libro da pubblicare in 100mila copie davanti alle telecamere, la Bompiani più che verificarne la qualità ne ipoteca in anticipo il successo.
Lo show è comunque piacevole e, pur nei limiti dettati dalle esigenze di spettacolarità (vedi le umiliazioni gratuite ai concorrenti eliminati), offre agli aspiranti scrittori qualche dritta interessante su come funziona il mondo editoriale. E ciò non solo per i consigli e le osservazioni dei tre giudici (Giancarlo De Cataldo – di gran lunga il più simpatico – Taiye Selasi e Andrea De Carlo) e del coach Massimo Coppola, ma anche per le prove che gli scrittori sono chiamati a superare nella seconda parte del programma. Il doversi misurare con un racconto su un argomento imposto e in un tempo limitato può apparire mortificante, ma avvicina alla scrittura “su commissione” che è parte dell’orizzonte di chi scrive per mestiere, mentre l’“elevator pitch”, cioè il tentativo di convincere una persona influente della bontà del proprio lavoro avendo a disposizione un solo minuto, è esperienza comune a molti autori alle prime armi.
In definitiva, la morale è che per sfondare coi libri non ci vuole solo il talento, ma bisogna anche essere versatili, comunicativi e saper “bucare lo schermo”. A Masterpiece tutto ciò è portato all’eccesso, ma nel mondo reale le cose non sono troppo diverse. E non è detto che sia solo un male.