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“In Taranto we trust” su Football Magazine

902732_653813924645681_195857517_o (1)rid“In Taranto we trust” è il titolo dell’articolo di Giuliano, pubblicato sul n. 3 del trimestrale “Football Magazine”, dedicato al Taranto F.C. 1927, la prima società calcistica italiana fondata dai suoi tifosi, grazie all’opera della Fondazione Taras 706 a.C.. Qui sotto, il testo dell’articolo.

Vent’anni trascorsi a coltivare un sogno di Serie B. Non è un modo di dire: per alcune squadre, quello che per altri è un incubo – la cadetteria – può trasformarsi addirittura in miraggio. E’ il caso del Taranto, a lungo habitué della seconda serie, che appunto vent’anni fa, il 13 giugno 1993, giocava quella che finora è stata la sua ultima partita in B. Un inutile acuto – due a zero a Cesena – prima del tracollo: già retrocesso sul campo, l’indebitato club rossoblù venne radiato nel corso dell’estate. Si era deciso di fare per la prima volta pulizia delle società coi conti in disordine, e il Taranto fu tra quelli che vennero spazzati via. Antesignani, a loro modo.
Un nuovo sodalizio calcistico ripartì dal Campionato Nazionale Dilettanti, l’attuale Serie D. Seguirono anni balordi, in cui accadde tutto fuorché ciò che ci si augurava: eppure era solo un ritorno in punta di piedi in Serie B, a cui si ambiva, mica la Champions. E neanche la A, quella A sfiorata una sola volta, e morta insieme ai sogni di una città e a un centravanti dal sorriso buono, Erasmo Iacovone, in una notte del 1978.
Fra playoff vinti (pochi) e persi (moltissimi, non tutti in modo chiaro), un nuovo fallimento, scandali ed emergenze di ogni tipo, l’elenco delle disgrazie, delle disillusioni e delle beffe dell’ultimo ventennio sarebbe molto lungo. Ma basterà qui accennare al campionato 2011-2012, che ne è una specie di compendio. Il Taranto milita in Prima Divisione, cioè nella vecchia C1 (le categorie minori hanno anche cambiato nome prima che i rossoblù jonici riuscissero a tirarsene fuori). La società è allo sbando e non paga gli stipendi, ma la squadra guidata da Mister Dionigi si fa onore. Sul campo totalizza più punti di tutti, il che normalmente significherebbe primo posto e promozione diretta in B. Ma “normalmente” non è avverbio che si addice al Taranto, né più in generale al calcio italiano dei nostri tempi. I punti di penalizzazione inflitti nel corso dell’anno per via delle scadenze di pagamento non rispettate fanno scivolare i pugliesi al secondo posto, costringendoli a giocarsi la promozione ai playoff. Playoff che “normalmente” (stavolta sì!) il Taranto perde.
La società fallisce ancora, e si teme che la città resti senza calcio, visto che si fatica a trovare imprenditori disposti a fondare un nuovo club che possa ripartire almeno dalla Serie D, beneficiando del Lodo Petrucci. Accade però qualcosa di nuovo. Ormai abituati a toccare il fondo, alcuni tarantini capiscono che sì, si può anche iniziare a scavare, a patto però di gettare solide fondamenta su cui poi costruire qualcosa di duraturo. Imbrogli e sfortuna non sono mancati nel recente passato, ma gli insuccessi sono stati figli anche dell’atteggiamento impaziente e distruttivo della piazza: un’ingenua e disperata voglia di credere al primo cialtrone che promette tutto e subito, presto rimpiazzata da una furia picconatrice che non risparmia niente, nemmeno quel poco che meriterebbe di restare in piedi. Una tela di Penelope frenetica e inconcludente, un circolo vizioso apparentemente senza ritorno: più tempo passa, meno si è disposti ad aspettare. E piuttosto che programmare, si improvvisa.
“Asciughiamo le lacrime. Un altro calcio è possibile” scrive invece il giornalista Lorenzo D’Alò. “Il passato a cui continuiamo a volgere lo sguardo, non esiste più. Esiste solo il nulla che ci troviamo davanti. Una spianata su cui costruire dalle fondamenta un calcio diverso. Fatto con onestà e criterio, l’unico combinato-disposto che può tradursi in un progetto. Un calcio da restituire alla gente. Fondato sul sostegno (che non è solo tifo) e sull’impegno (che è più libero del dovere) del proprio popolo”. Parole che rispecchiano perfettamente la filosofia della Fondazione Taras 706 a.C., un’associazione di promozione sociale nata nella primavera del 2012.
La Fondazione è il “trust” dei tifosi tarantini: raccoglie gli appassionati che vogliono promuovere i valori più positivi dello sport e della città. L’azionariato popolare nel club calcistico è solo uno degli obiettivi, e lo si vorrebbe introdurre gradualmente, ma il fallimento del Taranto e il rischio di scomparsa del calcio cittadino spingono la Fondazione ad accelerare i tempi e a lanciarsi in una sfida enorme, in cui sono in gioco il futuro della squadra del cuore e la credibilità stessa della neonata fondazione.
Per prima cosa tifosi e tifose fondano una nuova società sportiva, il Taranto Football Club 1927. E’ una mossa lungimirante: la società all’inizio è solo una scatola vuota, ma i tempi per l’iscrizione sono risicatissimi, e conviene portarsi avanti col lavoro. Vengono poi chiamate a raccolta le forze imprenditoriali, fino a costituire una compagine societaria di cui fa parte, con una quota di minoranza, la stessa Fondazione. Ma la mattina dell’ultimo giorno utile per l’iscrizione gli azionisti sono ancora chiusi in uno studio a discutere di quote, fideiussioni e cariche. La trattativa è più volte sul punto di saltare. Urla, pugni sbattuti sul tavolo, pianti. Poi, nel primo pomeriggio, si trova finalmente un accordo. Il tempo però scarseggia: gli incartamenti vanno consegnati in Lega Calcio, a Roma, entro le 19. Due soci, un commerciante e un consulente assicurativo, si infilano in macchina e puntano dritto verso la Capitale. Arriveranno – novelli Blues Brothers – alle sette meno un quarto. Benché in piena zona Cesarini, il nuovo Taranto, fondato dai tifosi, si è iscritto al campionato di Serie D. Per la comunità calcistica tarantina è un momento storico. Ma non c’è alcun fotografo a documentarlo: gli unici flash della giornata sono quelli degli autovelox.
Grazie alla Fondazione Taras, i tifosi jonici hanno ancora la loro squadra. Di più: hanno per la prima volta una squadra loro. Basta infatti iscriversi, dietro pagamento di un prezzo modico, alla Fondazione, per diventare, in forma indiretta, azionisti del Taranto. Funziona così: il sostenitore aderisce associandosi alla Fondazione; quest’ultima fa da schermo, sollevando i singoli soci da incombenze burocratiche e possibili noie legali. All’interno del trust le decisioni avvengono per votazione in assemblea secondo il principio “una testa, un voto”, indipendentemente dalla carica rivestita o dall’entità della quota associativa versata.
Il nuovo Taranto non solo è una delle prime società calcistiche italiane partecipate dai propri tifosi, ma è anche la prima in assoluto a essere stata fondata dal proprio trust di tifosi. Non è una differenza di poco conto. Vuol dire che lo statuto del Taranto Football Club è stato scritto dalla Fondazione Taras, la quale lo ha redatto a misura di tifosi, proteggendoli da brutte sorprese e tutelando quel valore immateriale rappresentato dall’amore per una maglia. Alla Fondazione, per esempio, spettano due membri nel consiglio di amministrazione indipendentemente dalle quote societarie possedute. La rappresentanza dei tifosi ha poi accesso ai libri contabili e ha potere di veto sull’ingresso di nuovi soci. I colori sociali sono intangibili, i prezzi di biglietti e abbonamenti devono essere alla portata di tutti e le fasce deboli hanno diritto ad agevolazioni. Viene insomma messo nero su bianco un principio di cui nessun vero tifoso ha mai dubitato: una squadra è di chi la ama. In fondo presidenti e azionisti sono solo degli amministratori che decidono di gestire temporaneamente, e con tutto il rispetto dovuto, un patrimonio comune di cui non sono davvero proprietari.
Vent’anni dopo, il Taranto è un’altra volta pioniere di una nuova tendenza calcistica. Ma se nel 1993 aveva inaugurato la moria di club – una dolorosa consuetudine che non si è ancora interrotta – oggi contribuisce a tracciare una possibile via di uscita per un movimento calcistico che appare allo stremo delle forze. Soffrono soprattutto le città di medie dimensioni, stritolate dal divario tra aspettative e possibilità, da quando concetti come “blasone” e “bacino di utenza”, che una volta erano le loro armi in più, si sono trasformati in palle al piede. E il fenomeno non riguarda solo le città del Sud, tradizionalmente problematiche, ma anche realtà un tempo considerate esempi di calcio sano e sostenibile, travolte anch’esse da debiti e calcioscommesse.
Anche a Taranto è stata fatta una scommessa, ma per una volta il Totonero non c’entra. Si tratta di puntare su un coinvolgimento dei tifosi a tutto tondo, che va al di là dell’azionariato popolare visto come semplice risorsa economica. Quello immaginato dai Supporters Trust è una sorta di tifoso 2.0 che si spende attivamente secondo le sue possibilità e competenze. Dal pubblicitario che promuove la campagna abbonamenti al giardiniere che cura la manutenzione del campo, ognuno ha qualcosa da offrire alla causa. In nord Europa lo hanno già capito da tempo, ma anche in Italia, sebbene in modo sotterraneo, si sta muovendo qualcosa: a Roma, Venezia, Modena, Ancona, Cava dei Tirreni, Piacenza, Arezzo, Rimini, Lucca, Lecce e in altre città si stanno sperimentando esperienze di questo tipo, sotto l’egida di Supporters Direct Italia, l’emanazione nazionale dell’organismo di coordinamento europeo.
Se il fenomeno è globale e in espansione, l’esperienza tarantina si lega alla particolare situazione che sta vivendo la Città dei due mari. Non è infatti un caso che la nuova alba calcistica tarantina sorga proprio nell’estate 2012, in contemporanea con l’escalation innescata dai provvedimenti giudiziari nei confronti del colosso siderurgico Ilva. Una sorta di terremoto che ha portato alla ribalta nazionale i problemi occupazionali, ambientali e sanitari che attanagliano la città da lungo tempo. Taranto è oggi nella condizione e nella necessità di ripensare profondamente il proprio futuro. Il piacevole effetto collaterale di quella che è una crisi delicatissima e dai risvolti anche drammatici è la fioritura di esperienze di cittadinanza attiva senza precedenti nella storia locale e con pochi termini di paragone nell’intorpidita Italia di oggi. Si sta in altre parole facendo largo la consapevolezza che gli “eroi” e le manne salvifiche hanno fatto il loro tempo e che l’unico modo di tirarsi fuori dai guai è darsi da fare con testa e cuore. Anche i tifosi stanno facendo la loro parte in questo fenomeno, come dimostra ad esempio la “sponsorizzazione popolare”, nei primi mesi del 2012, della squadra con lo slogan “RespiriAMO Taranto”. Una saldatura, questa fra supporter calcistici e questioni cittadine, che non va intesa come straripamento al di fuori del calcio di rozze dinamiche da hooligan, ma al contrario come assunzione da parte del mondo del calcio dei modelli più alti della partecipazione democratica.
La Fondazione Taras oggi ha oltre 1.500 soci e detiene circa il 14% del capitale sociale del Taranto Football Club 1927. A poco più di un anno dalla sua nascita può guardarsi indietro con legittimo orgoglio. Fra le iniziative realizzate figurano incontri fra tesserati del Taranto e ragazzi di zone disagiate, il finanziamento di un campo da baseball e la donazione di defibrillatori a strutture sportive, la “settimana dell’orgoglio rossoblù”, eventi culturali nelle principali città del centro nord e un convegno internazionale a Taranto.
Recentemente poi, la Fondazione ha compiuto un altro passo storico. Con una mossa che sembra non avere precedenti nemmeno all’estero, ha preso in gestione autonoma il settore giovanile del club. Un gesto in cui valore simbolico e obiettivi concreti a lungo termine si sposano alla perfezione. Una missione ambiziosa per questo manipolo di “pazzi per il Taranto”, che rubano tempo e soldi a lavoro e famiglie per inseguire un sogno comune di riscatto e giustizia, nel calcio e non solo.
Il primo campionato del Taranto dei tifosi è stato interlocutorio. Partenza difficile, figlia di una squadra assemblata in fretta e furia, finale in crescendo grazie ad alcune correzioni in corsa. Media spettatori al top della categoria e tutto sommato dignitosa in assoluto, considerando i miseri standard attuali, comunque non troppo diversa da quella di solo un anno fa, quando la squadra lottava per la B. Perché il piacere sta nel ritrovarsi, nel capire che in fondo non è tanto importante la categoria in cui gioca la tua squadra quanto la passione con cui la segui. E nel privilegio raro di poter tifare per i propri colori, non malgrado chi gestisce la società, ma a maggior ragione per loro. Perché fra “noi” e “loro” non c’è più differenza.