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“In grazia di Dio”: la prima nazionale

1926924_685981038107731_1353569315_nIl commento di Giuliano alla prima nazionale di “In grazia di Dio”, il 24 marzo al cinema Anteo di Milano. Pubblicato sul Quotidiano di Puglia del 26 marzo.

Fosse stato in Arabo anziché in Salentino, l’avrebbero visto nello stesso modo. I milanesi accorsi l’altro ieri alla prima nazionale di “In grazia di Dio” si sono affidati ai sottotitoli in Italiano senza alcuna esitazione. Troppo stretto il dialetto del Capo, troppo lontano da qualsiasi appiglio noto. Perché se il Salento a Milano è popolare, il Salento popolare – e non “etnochic” – lo è molto meno. Di solito nei film ci si ferma a un simpatico accento edulcorato. Magari anche barese, in ossequio a quella visione massimalista della Puglia come cartolina del Salento popolata da imitatori di Lino Banfi. Chissà, forse è proprio per stigmatizzare questo andazzo che Edoardo Winspeare fa recitare la prima battuta del suo film a un venditore ambulante barese.
Nella prima proiezione di “In grazia di Dio” non riservata alla stampa, il pubblico si è dimostrato più attento e sensibile di quanto non lo siano mediamente i giornalisti. Un po’ perché di pubblico invitato si trattava, e quindi almeno in parte “amico” del film. Ma – è sembrato – soprattutto perché il film ha conquistato quel pubblico a poco a poco, con gentilezza. Nella sala gremita si è celebrata un’affinità fra diversi: da una parte la “gente da Anteo” (il cinema in cui la proiezione ha avuto luogo, tempio di una certa borghesia illuminata e radical chic meneghina), dall’altra quel fascinoso regista – baffuto come sempre, pettinato come mai, un po’ nobile e un po’ contadino – che con disinvolto candore quasi giustificava la propria eleganza: “Di solito non mi metto la cravatta, ma sapendo che mi avrebbe presentato Paolo Mereghetti non potevo farne a meno”.
Si spengono le luci. La pellicola inizia con tre inquadrature in successione di un placido paesaggio rurale del Salento. In sala si sentono sospiri di approvazione. Quasi dei mugolii, che ritornano con le vedute più suggestive, quando ad esempio la macchina da presa si alza rapida lasciando che gli ulivi svelino il mare. È la Puglia rassicurante, quella più simile a un immaginario da turismo di charme. Ma poi Winspeare mostra anche le asperità, quelle naturali e quelle umane. Amalgama il bello e il brutto, i buoni e i cattivi in un unico impasto. E per una volta il Salento, la Puglia, il Sud, non restano schiacciati in uno dei due modelli opposti – paradiso terrestre o luogo del degrado – ma respirano in una tridimensionalità che è insieme realistica e poetica. Una ricchezza di sfumature che toglie la voglia di giudizi frettolosi e definitivi. La platea sospira, ride quando c’è da ridere e piange di nascosto quando non se ne può fare a meno. Ma per il resto rimane in silenzio, come sospesa. Sorpresa e affascinata da un Salento altro. In grazia di Dio, si potrebbe dire. Resta zitta e accetta di buon grado anche la rappresentazione dei milanesi, affidata a un uomo ricco e dai modi affettati che incassa con malcelata incredulità il rifiuto che due donne – pur in difficoltà economiche – oppongono alla sua offerta di acquistare il loro appezzamento. “Qua non è tutto in vendita” dice la più anziana. Allo scorrere dei titoli di coda i milanesi applaudono convinti.