Una riflessione sulla bocciatura della candidatura di Taranto a Capitale europea della Cultura. Pubblicato domenica 24 novembre sul Quotidiano di Puglia.
Com’era prevedibile, Taranto non ha superato il primo turno di selezione del bando per la Capitale Europea della Cultura. Chi scrive aveva già espresso, dalle pagine di questo giornale, la sua opinione in merito: per come è stata presentata la candidatura, le possibilità erano praticamente nulle, ma il tentativo del Comune ha comunque avuto senso, a patto di intenderlo come una pura dichiarazione di intenti. Abbandonarsi oggi alle polemiche equivarrebbe a sparare sulla croce rossa. Molto più utile appare invece riflettere sugli esiti di questo primo round.
Scorrendo l’elenco delle sei finaliste, la prima cosa che salta all’occhio è la presenza di due città, Matera e Lecce, distanti meno di cento chilometri da Taranto. I motivi che hanno portato a escludere una candidatura congiunta con l’una o l’altra sono già stati ampiamente dibattuti. Ma al di là della vicinanza geografica, non è specchiandosi nelle sue vicine che Taranto deve guardare al suo fallimento. Matera e Lecce partivano da una posizione di vantaggio. Hanno infatti un’immagine già consolidata di città di cultura, dovuta nel primo caso all’inclusione nella lista Unesco dei siti patrimonio dell’umanità, e nel secondo a quella “brandizzazione” del territorio che – pur criticabile e criticata – ha sortito formidabili effetti mediatici, prima ancora che reali.
Piuttosto – dato che anche Siena, Ravenna e Perugia-Assisi sono realtà molto diverse da quella jonica – è a Cagliari che Taranto deve guardare. Cagliari è, come Taranto, una città marittima e portuale di dimensioni medio-grandi. Come Taranto è una città “non turistica” in una regione turistica. Come Taranto non è nota principalmente per essere una città di cultura, ma possiede in questo senso delle potenzialità inespresse. Cagliari dimostra che Taranto ce la poteva fare, dando torto a chi riteneva la città dei due mari incompatibile “per natura” con certi traguardi.
Ma perché allora Cagliari ce l’ha fatta e Taranto no? Confrontando i due fascicoli di candidatura, al di là di una maggiore precisione e modernità della proposta sarda, non si riscontrano distanze abissali nelle attività previste. A fare la differenza sono invece altri aspetti.
Primo: il sostegno da parte delle autorità locali. Cagliari gode dell’appoggio di tutti gli enti pubblici, compresa la Regione, delle sedi regionali dei ministeri, di Università, Diocesi, Autorità Portuale, Camera di Commercio, associazioni di categoria, sindacati, Film Commission, fondazioni e molto altro. Taranto risponde con due delibere del Comune (e ci mancherebbe!) e un protocollo d’intesa coi comuni della provincia.
Secondo: la partecipazione degli artisti, degli operatori del mondo socio-culturale e degli abitanti, una delle condizioni richieste dal bando. Cagliari dichiara che nel 2013 sono stati organizzati incontri con associazioni culturali del territorio, operatori turistici, della ricettività, della ristorazione e del trasporto, associazioni ambientaliste, Università, ecc.. Non risulta che a Taranto sia stato fatto niente di simile, a dimostrazione di quella diffidenza reciproca (spesso ben motivata, va detto…) che da queste parti separa in compartimenti stagni istituzioni e società civile. E’ imperdonabile fra l’altro che – in una candidatura tutta sbilanciata sui progetti futuri e sul cosa la città si aspettava, anziché sul cosa aveva da offrire – si siano trascurate quasi del tutto le iniziative più interessanti della Taranto di oggi, da “L’Isola che vogliamo” al recupero dei vecchi saperi marinari, fino alle crociere di osservazione dei delfini, cui pure lo slogan del progetto faceva riferimento.
Infine, il budget. Taranto non può vantare accordi già conclusi con sponsor privati e, nel dichiarare le risorse riservate alla cultura negli ultimi cinque bilanci mette sul piatto percentuali imbarazzanti (numeri decimali, contro quelli a due cifre del Comune di Cagliari). La mancanza di risorse finanziarie e lo scetticismo del mondo imprenditoriale vengono correttamente segnalati come punti deboli del progetto. Ma non sono mancanze di poco conto, quando si concorre a un finanziamento del genere, la cui logica è proprio quella di erogare denaro per mobilitare risorse aggiuntive.
Si potrà obiettare che tutte queste mancanze derivano dall’aver lavorato con poco tempo e pochissime risorse a disposizione, insomma in emergenza. Obiezione che può essere accolta solo in parte: i limiti vanno ricercati anche nell’approccio adottato. Ma in fondo il punto è proprio questo: perché bisogna lavorare sempre in emergenza? Riflettiamoci, prima di sprecare altre opportunità.