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Totocalciopoli

Il primo marzo Martino Scialpi, l’uomo finito al centro di un incredibile caso giudiziario per via di un tredici miliardario fatto trent’anni fa e mai incassato, ha ottenuto una prima grande vittoria. Ecco cosa scrisse Giuliano nel 2010 sul trimestrale Linea Bianca:

Totocalciopoli

Lino Banfi fa la danza di Juary mentre in tv, su sfondo Muppet Show, appare in sovraimpressione il gol di Cantarutti che gli regala un tredici miliardario. L’Abatantuono interista si licenzia, manda al diavolo moglie e suocera e si dà alla bella vita: i suoi amici non sanno come dirgli che quella schedina da ottocento milioni era solo uno scherzo.
Primi anni 80: “Al bar dello sport” e “Eccezzziunale… veramente” imperversavano ai botteghini, simboli di un cinema popolare che proprio in quel periodo stava cambiando pelle. L’affinità di trame non deve sorprendere: alle porte del decennio d’oro del calcio italiano (vittoria Mundial e picco massimo di affluenza negli stadi) e con il tabù dei soldi ormai infranto, il tredici era più che mai il sogno proibito dell’italiano medio. Oggi c’è il Superenalotto.
Ma con buona pace di Vanzina e soci, la vicenda più incredibile di grandi vittorie, vere o presunte, al Totocalcio, accadeva in quegli stessi anni a Martino Scialpi. Ed era una storia vera.

Lo vado a trovare nella sua casa in campagna, fra Martina Franca e Ostuni. Complice l’ambientazione pugliese e una chioma non più fluente, il Martino Scialpi di oggi – 57 anni – mi ricorda un po’ Banfi. Nel 1981, però, è ancora un ragazzo, anche se lavora già sodo. Commerciante ambulante di vestiti. In parole povere “fa i mercati”: ogni mattina parte all’alba col furgone verso un paese della Puglia o della Basilicata, monta il suo banco e vende la merce.
Un giorno – è la fine di ottobre – si trova a Ginosa, paesino collinare fra Taranto e Matera. Gigino bazzica intorno al mercato. E’ un ragazzo con una piccola menomazione fisica, appassionatissimo di calcio. Tira su qualche soldo offrendosi di fare piccole commissioni ai venditori durante la lunga giornata di lavoro. A uno porta il caffè, a un altro compra il giornale. A Martino, quel giorno, propone di giocare una schedina. Sono appena due colonne, le ha compilate lui stesso. “Ma sì”, pensa Martino. Gli allunga qualche spicciolo – il valore della giocata più una mancia – e pochi minuti dopo intasca un pezzetto di carta bollato e tagliato con il righello su un lato lungo. Martino sta lavorando, e poi non segue tanto il calcio. La vittoria della Roma in casa della Juve e quella strana preponderanza di “due” nelle partite di B e C passano inosservate.
Qualche giorno dopo in casa Scialpi il riepilogo finale di Bortoluzzi trasmesso dalla radiolina d’ordinanza viene coperto da strepiti di gioia trattenuti a fatica. Regola numero uno: mantenere il segreto. Ovunque, ma a maggior ragione in un paese del Sud, far trapelare la notizia di un’improvvisa ricchezza significa rendersi la vita impossibile. Ma è tredici, porca miseria, Martino ha fatto tredici. Come fa a non festeggiare? E’ il primo novembre: qualche santo deve essersi ricordato di lui.
I sogni, però, muoiono all’alba. La mattina del due novembre Martino deve affrontare parecchi problemi, ma non quello di giustificare un sorriso a trentadue denti poco consono all’occasione. La vincita, come previsto, è enorme: un miliardo, tre milioni e novantaduemila lire. Un miliardo tondo tondo, insomma, proprio una cifra da film. Peccato che né sui giornali né al Coni risulti una schedina vincente giocata in provincia di Taranto. La commediola strapaesana è già finita: inizia il legal thriller.
Cosa è successo? La matrice della schedina – che in epoca pre-informatica veniva spedita fisicamente – non risulta mai arrivata alla competente sede Coni di Bari. Martino sporge denuncia.

Ciò che segue è difficile da raccontare e ancor più da credere. Ma è tutto vero, come dimostrano i 139 allegati – quintali di carta, per metterli insieme è stato necessario affiancare tutti i tavoli della casa – raccolti da Martino per uno dei suoi ricorsi più recenti. La sua è forse una delle vicende legali più lunghe, contorte e sconclusionate della storia nazionale, che pure è ricchissima di simili episodi. Con una particolarità, precisa Martino: “lo Stato, cioè il soggetto che dovrebbe vigilare affinché i cittadini non vengano truffati, ha fatto carte false, nel vero senso della parola, perché non venisse riconosciuto un mio diritto”.

Martino, forte della sua “figlia” regolarmente giocata, chiede conto del terribile disguido. Il Coni, però, si trincera dietro un articolo del regolamento del Totocalcio secondo cui l’ente gestore non è responsabile di eventuali mancanze da parte dei titolari delle ricevitorie eccetto che per dolo o colpa grave, e vince la causa.
La ricevitoria in questione si chiama “Le Bistrò”, con l’accento sulla “o”: una delle non rare concessioni al comico di una storia altrimenti molto seria. La titolare – una donna venuta dal Nord e molto chiacchierata, giudicata di dubbia moralità in un rapporto dei carabinieri e convivente con un uomo che a sua volta non gode di specchiata reputazione – nicchia, assume posizioni poco chiare, e nel corso degli anni ritratterà più volte la sua versione. Ma questo in fondo conta poco: Martino il suo miliardo lo può avere solo dal Coni, non certo da una tabaccaia di Ginosa.
I successivi gradi di giudizio confermano la prima sentenza ma il Coni, non contento, passa al contrattacco accusando Scialpi di truffa, sostenendo cioè che in combutta con la tabaccaia abbia falsificato la schedina per ottenere illegittimamente la vincita. Per Martino le cose iniziano a complicarsi maledettamente: non solo il suo miliardo si allontana, non solo le spese legali e i mancati guadagni stanno mettendo a dura prova le sue finanze, ora deve anche fare fronte a delle richieste di danni. Per due volte viene chiamato in causa e per due volte riesce a dimostrare la sua innocenza. Arriviamo al 1994: la Corte di Cassazione respinge per la seconda volta il suo ricorso. Martino e la sua famiglia sono stremati. Il gioco non vale più la candela, la decisione è quasi presa: lascio perdere tutto e torno a vivere. Ma il Coni lo accusa ancora una volta di truffa. A quel punto Martino capisce che deve andare fino in fondo, costi quel che costi. La cosa trascende. Dal mero interesse personale (per quanto di enorme portata) si passa al novero delle questioni di principio: le più nobili, le più pericolose.
“Credo che loro confidassero nel fatto che prima o poi mi sarei arreso, se non altro per motivi economici”, racconta oggi Scialpi. “Quella che sto combattendo è anche una battaglia civile: non è giusto che solo chi ha grandi mezzi possa lottare per vedere riconosciuto ciò che gli spetta. Quando avrò i miei soldi mi piacerebbe destinare una parte della vincita a un’associazione che tuteli i diritti dei cittadini in controversie nei confronti dello stato”.
Martino cerca di percorrere tutte le strade possibili. Due deputati di diversi schieramenti presentano due distinte interrogazioni parlamentari, ma il Ministero delle Finanze si trincera dietro le sentenze che sollevano lo stato da ogni responsabilità. L’ambulante di Martina Franca si mette anche a studiare, perché dei suoi avvocati non si fida poi tanto. I soldi in ballo sono tanti, e la corruzione è un’eventualità che non si può escludere.
Arriva l’assoluzione, questa volta definitiva, dall’accusa di truffa. Ormai è dimostrato: la schedina è autentica. Ma martino non ha visto ancora una lira. E poi certi dispiaceri, come un matrimonio che finisce, non sono monetizzabili. Sua moglie a un certo punto ha detto basta: gli ufficiali giudiziari che ti portano via i mobili sono una prova a cui non tutti possono reggere.
Ma ecco la svolta: tramite ricerche e perizie calligrafiche Martino scopre che la ricevitoria in cui aveva giocato la schedina era all’epoca dei fatti abusiva. Le carte che attestavano il passaggio di consegne con il precedente gestore erano state create, con firme e date false, solo molti anni dopo. L’eccezione di dolo o colpa grave prende improvvisamente corpo: come farà ora il Coni a chiamarsi fuori? Scialpi chiede la revocazione della sentenza, cioè la riapertura del processo che ormai era passato in giudicato.
Si succedono i tre gradi di giudizio, ma ancora una volta non c’è niente da fare. Martino non vede riconosciute le sue ragioni. Eppure sembra tutto così semplice: si è appurato che la schedina è autentica e che la ricevitoria era abusiva (circostanza, quest’ultima, di cui i funzionari del Coni, almeno quelli di Bari, non potevano essere all’oscuro). Cos’altro serve?
Martino non si arrende. Macina chilometri, cambia avvocati, chiede consulenze, cerca di mobilitare i mass media. Negli anni la sua storia giudiziaria assume proporzioni pachidermiche: la somma richiesta, fra adeguamenti all’inflazione e danni materiali, morali e biologici è lievitata fino a circa 25 milioni di euro; i procedimenti sono oltre cinquanta, le udienze quasi mille. In una di queste, succede un episodio divertente: Gigino, il mago della schedina, viene chiamato a testimoniare. Un magistrato dimostra di stimarlo molto, paragonandolo fra l’altro a un manager sportivo per la profondità delle sue conoscenze calcistiche. A udienza finita gli chiede, fra il serio e il faceto, di scrivergli due colonne. Farà undici. Chissà: uno o due punti in più e la causa avrebbe potuto prendere un’altra piega…
Recentemente Scialpi ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica, ha inscenato una protesta con enormi cartelloni davanti alla sede del Coni e scatenato una nuova offensiva civile e penale verso le sue controparti, chiedendo fra l’altro che una perizia grafologica verifichi se le firme false sui “passaggi di consegne” siano riconducibili ai due funzionari del Coni all’epoca operanti a Bari. I procedimenti attualmente aperti sono tre, e altri se ne potrebbero aggiungere in futuro. Ma all’elenco dei nemici di Martino se ne sono da tempo aggiunti due, particolarmente ostici: si chiamano amnistia e prescrizione.

Prima di incontrarlo, conoscendo la sua storia, immaginavo che Martino Scialpi fosse un uomo distrutto, consumato da un’ossessione. Nella sua casa graziosa e isolata, dove vive con la sua nuova compagna Aura, conosco invece una persona lucida, positiva, che non ha perso un briciolo di energia. Eppure il destino con lui è stato davvero beffardo. Perché a questo punto arrendersi e andare avanti a oltranza sono due ipotesi altrettanto pazzesche. E se e quando vincerà la sua battaglia, avrà ancora una domanda con cui combattere: ne valeva la pena?
Resto per qualche minuto da solo in veranda. Mi godo il silenzio, il muretto a secco al di là della strada e il nitido sole invernale. Martino torna con un borsello e, senza rompere il silenzio, ne rovescia il contenuto sul tavolo. Migliaia di biglietti grigioverdi, raccolti in decine di mazzi, come il bottino di una rapina. Fossero banconote da centomila lire, forse avremmo sotto gli occhi il benedetto, maledetto miliardo. Fossero pezzi da cinquecento euro, magari i venticinque milioni attuali non sarebbero più una chimera. Ma sono ricevute, ricevute dell’autostrada. In oltre ventotto anni Martino è andato a Roma circa seicento volte. I viaggi all’interno della Puglia, fra sedi del Coni, tribunali, periti e avvocati, non si contano più.
Questo mucchio di carta senza valore mi appare come la prova tangibile di una sconfitta. Provo un’opprimente sensazione di ineluttabilità.
“Credi nel destino?”, chiedo a Martino, cupo. Io mi sono scoraggiato anche solo a sentirla, la storia.
Lui che invece l’ha vissuta mi risponde: “Sì. E’ tutto scritto. C’è qualcuno in alto che ci guarda, e questo spiega perché ho percorso quasi quattro milioni di chilometri senza il minimo incidente. So di essere nel giusto e sono fiducioso che tutto si concluderà bene”.
Scialpi del suo caso conosce ormai ogni piega e nessun quesito lo trova impreparato. A una sola domanda non è ancora riuscito a dare una risposta. O forse non se l’è voluta dare: “Perché? Di chi è la colpa?”. “Non lo so, non posso saperlo. So solo che la schedina io l’ho giocata e che non è arrivata a Bari”.
Azzardo la mia ipotesi da profano, senza pretese di verità, basandomi semplicemente sulla logica e sul “cui prodest”: la ricevitoria fantasma, con la complicità di qualcuno al Coni, incassava le puntate senza giocarle, facendo fronte in proprio alle eventuali vincite. Il tredici miliardario ha fatto saltare il banco, mandando a monte la truffa.
Martino non si lascia appassionare dal “totocolpevole”. A lui interessano i singoli comportamenti delittuosi, non il possibile disegno generale.
“Dove si trova adesso la famosa schedina?”, la curiosità mi sembra legittima.
“Presso un notaio di cui, per motivi di sicurezza, sono l’unico a conoscere l’identità”. Me ne mostra, però, una fotocopia. La pubblicità sulla parte bassa suona vagamente ironica: “Il Coni invita tutti i giovani a partecipare ai Giochi della Gioventù”.

Sono passati quasi trent’anni dall’inizio di questa incredibile odissea. “Eccezzziunale… veramente” e “Al bar dello sport” continuano a essere trasmessi con buona frequenza dalle tv private. Sono stati ristampati in dvd, sono passati attraverso un paio di ondate di rivalutazione e appartengono ormai all’immaginario collettivo di una generazione, solido background di calciofili, amanti della comicità popolare e trashologi più o meno snob. “Eccezzziunale… veramente” ha avuto anche l’onore di un remake, operazione commerciale che – deludendoli – rassicura gli appassionati sull’ineguagliabile magia della pellicola capostipite. “Al bar dello sport” no: il binomio Banfi-calcio ha trovato la sua celebrazione in “L’allenatore nel pallone 2”. Sia Banfi che Abatantuono hanno fatto carriera, si sono dati ad altri generi, si sono cimentati anche con ruoli drammatici, spinti forse da un’opinione pubblica convinta che far piangere sia, di per sé, più dignitoso che far ridere. Il Totocalcio invece è caduto nel dimenticatoio, è ormai solo roba da iniziati. Realizzo con stupore di non sapere neanche quante partite ci sono, adesso, in una schedina. Ricordo vagamente una notizia, anni fa: “Addio tredici”, diceva, e il tono era quello del revival. Il Totocalcio è roba vecchia. Le insegne con scritta in corsivo gialla su sfondo verde si trovano nei negozi vintage, al pari dei dischi del telefono in metallo smaltato e del tappo Peroni in finta prospettiva.
Martino Scialpi, invece, è ancora lì. Un piccolo eroe che da metà della sua vita sta lottando contro qualcosa di immensamente più grande di lui, che siano i capricci del caso, le pastoie della burocrazia o la disonestà degli uomini poco importa. Tempo fa è stato contattato da una casa di produzione che voleva girare un film sulla sua storia. Il progetto poi non andò in porto, ma la lavorazione iniziò. La troupe voleva incontrare tutti i protagonisti. Per Martino era una specie di rendez-vous con vecchi fantasmi. Non ne trovarono nessuno. Fantasmi, appunto. La “titolare” della ricevitoria si era trasferita in uno sperduto paese lucano. Il tentativo di intervistarla si fermò davanti a un muro di minaccioso silenzio. Il silenzio di Gigino fu di altra natura. La casa era quella di sempre, ad aprire fu la madre. Le sue occhiaie erano già una risposta. Un brutto male se l’era portato via qualche anno prima. Ancora giovane: un’eventualità rara, ma che nondimeno a volte si verifica. Come tre “due” consecutivi alla fine di una schedina.

Anche gli Animal piangono (the day Edmundo cried)

Pezzo pubblicato  nel 2004 sul n. 2 di Linea Bianca, che ripercorre la breve e tragicomica esperienza del brasiliano Edmundo nelle file del Napoli.

Anche gli Animal piangono

Inverno 2000-2001.

Due cose non fa mai Edmundo: ridere e spettinarsi. Quanto alla prima, avrà i suoi motivi, o forse si tratta solo di continuare a meritare l’appellativo di O animal. La seconda: per come ormai si comporta in campo, ci sarebbe da meravigliarsi del contrario, ma nella vita di tutti i giorni come farà? Mai un refolo maligno a scompigliargli la scriminatura mentre cazzeggia a Copacabana, mai una donna troppo espansiva che gli arruffi il ciuffo. Niente. Edmundo è (non solo per i capelli) un personaggio di un film di Hollywood, di quelli che già la mattina fra le lenzuola sembrano appena usciti dal parrucchiere.

A pensarci, che personaggio strano. Fisico breve ed asciutto, ma non da calciatore, piuttosto da impiegato del catasto che non eccede con gli spaghetti. Così come da grigio impiegato è l’immutabile capigliatura, corta e disciplinata da un’anonima riga al lato. Se si trascurano gli occasionali lampi di cattiveria negli occhi, se si dimentica ciò che lo abbiamo visto fare, e ciò che sappiamo di lui, e lo si guarda, corpo e viso, non si ha l’impressione di avere di fronte un calciatore, né tanto meno un bizzoso fuoriclasse brasiliano; figurarsi poi un piantagrane con alle spalle imbarazzanti vicende giudiziarie. Edmundo, insomma, non si somiglia.

 

Il Campionato di Serie A è in pieno svolgimento. Un pomeriggio infrasettimanale circa 15.000 tifosi affollano una curva del San Paolo: sono lì per assistere alla presentazione del (ex?) campione Edmundo Alves de Souza Neto, per tutti semplicemente Edmundo. Succede che il traballante Napoli di Ferlaino e Corbelli, per raddrizzare una stagione iniziata male, ha provato il coup de thêatre, ingaggiando per una cifra considerevole l’attempato brasiliano fino al termine della stagione. Certo, si dice, ha un brutto carattere, certo ha giocato poco ultimamente, e per giunta in Brasile, dove, si sa, i ritmi di gioco sono blandi e niente affatto paragonabili a quelli italiani. Ma la classe non è in discussione, e poi (ma questo non si dice) per lui, al contrario di Martin Palermo, altro obiettivo di mercato poi sfumato, è bastato pagare solo l’ingaggio: nessuna società ne reclamava il cartellino.

La passerella al San Paolo ha subito richiamato nella stampa il ricordo di un’altra presentazione, ben più nota e memorabile, quella di Maradona nel 1984. Per i tifosi azzurri l’auspicio che la stampa sorvoli su simili paragoni è vano. Del resto l’accostamento appare sacrilego, ma tutto sommato giusto. In questo momento non c’è niente a cui aggrapparsi se non Edmundo. Triste a dirsi, ma le sorti del Napoli sono nei suoi piedi quanto ai tempi (che tempi!) lo erano nei piedi (nel piede) di Diego. Ma attenzione, i tifosi del Napoli non sono una massa adorante ed acritica come qualcuno a volte vorrebbe far credere. No. Al contrario sono molto esigenti, chi ha giocato da quelle parti può confermarlo. Se in migliaia vanno al San Paolo in un pomeriggio invernale per vedere un accigliato brevilineo che fa mezzo giro di campo con la sciarpa al collo è per tifo, puro tifo. E anche per mancanza di alternative: la speranza oggi si chiama Edmundo. Lui è ancora al calcio d’inizio, è il momento di incoraggiarlo. Quando la palla ricomincerà a correre – e il suo compito sarà quello di farla correre bene – si vedrà. Certo nessuno gli risparmierà i fischi, se dovesse meritarli.

 

Li meritò. Al primo pallone toccato si produsse in uno sprazzo incoraggiante, conclusosi però emblematicamente con un passaggio al raccattapalle. Nei restanti novanta minuti d’esordio, un tiro fiacco e poco più. Nelle partite successive un trotterellare irritante (considerando l’ingaggio e i chilometri percorsi, doveva avere un tassametro più esoso di un cab londinese abusivo) e pochi spunti, quasi sempre incompiuti, o fini a se stessi. Esibendosi di tanto in tanto in numeri ad effetto, sembrava che, con l’orgoglio del vecchio campione, Edmundo volesse dire al mondo “guardate cosa sono in grado di fare”. Ma la cosa finiva per innervosire ancor più i tifosi, dato che quelle dimostrazioni teoriche di talento non producevano mai, o quasi mai, risultati tangibili. I fischi che gli piovevano in testa (senza peraltro spettinarlo) erano sì rivolti a lui, ma anche a chi, a capo di una società agonizzante, aveva scialacquato centinaia di milioni per quel tipo da spiaggia, per quello svogliato turista da stadio. Nonostante il presunto salvatore della patria, il Napoli continuava a traballare, sempre più pericolosamente.

 

Anche fuori dal campo Edmundo non era più lui. Uno screzio con un compagno in allenamento per un contrasto troppo duro e frotte di cronisti si precipitano a Soccavo, sperando di immortalare il ritorno di O Animal. Uno si aspetta accessi d’ira e bestemmie in portoghese e si trova davanti understatement e correttezza. Ai giornalisti brillavano ancora gli occhi al ricordo della sua fuga al Carnevale di Rio ai tempi della Fiorentina, con Batistuta ancora rantolante per via del grave infortunio appena patito: l’inseguimento fino alla Malpensa e lui che li mandava a fanculo davanti alle telecamere… roba forte, da ripagare decenni di interviste diplomatico-soporifere modello “la formazione la decide il Mister”. Quando l’hanno visto tornare in Italia, per giunta in una piazza calda come Napoli, non gli deve essere sembrato vero. Avranno pensato: “chissà ora questo che combina”. E invece combinava poco, in campo e fuori. Ci hanno provato in tutti i modi a tirargli fuori il lato incazzoso: gli hanno fatto delle domande che avrebbero fatto imbufalire pure Liedholm sotto tranquillanti, ma lui niente. “Sono cambiato”, rispondeva, e, ahimè, al San Paolo se n’erano già accorti da un pezzo.

 

L’estate è alle porte, e la serie B pure. E’ il 10 giugno e mancano due giornate. La prima è al San Paolo contro la lanciatissima Roma, che, a scanso di sorprese ed incubi affioranti dal passato (do you remember Lecce?), vorrebbe vincere lo scudetto con rassicurante anticipo. Certo sarebbe poco educato calare a Napoli, spedire i padroni di casa in B e poi magari fare caciaroni caroselli sventolando le bandiere giallorosse in via Caracciolo e in Galleria Umberto. Ma ai romani, giustamente, che je frega? E’ il momento dello scudetto, non del galateo.

Se non si retrocede contro la Roma, ci si va a giocare le ultime chances a Firenze, contro i viola più o meno in vacanza.

Il San Paolo è pieno, di napoletani e di romanisti. I giallorossi sono in tanti, non tutti hanno trovato posto. Fuori dallo stadio qualcosa non va per il verso giusto. Le note di “Grazie Roma” (euforia e grandeur capitoline) e di “Lacrime napulitane” (presagio partenopeo di tragedia imminente) non si amalgamano, il cocktail rischia di essere esplosivo.

Nel primo tempo il redivivo Amoruso infila la difesa dei quasi campioni e lancia il Napoli. Dura un po’. A un certo punto Batistuta sente la Storia che gli batte un dito sulla spalla e capisce che tocca a lui. Totti non vuole essere da meno e lo imita poco dopo: due gol in una manciata di minuti e Roma in vantaggio. Il Pupone per la verità si aggiusta pure la palla con un braccio, scandalizzando la platea: “Chi si crede di essere, Maradona?”. Dopo una fase movimentata, la partita prosegue piatta, e sembra debba finire come logica e classifica suggerirebbero. I giallorossi sentono avvicinarsi il Momento, quello colla M maiuscola, per gli azzurri invece se ne prospetta uno davvero minuscolo. Gli osservatori imparziali probabilmente pensano già a cosa succederà fra un’oretta in via Caracciolo. Ma “il bello del calcio” quel giorno è Fabio Pecchia, piccolo grande eroe di un piccolo Napoli. A nove minuti dalla fine aggiusta su punizione il risultato, con l’aiuto di barriera e portiere. Due a due e tutti a casa. Domenica da ricordare. Edmundo, per chi se lo fosse chiesto, l’ha attraversata al piccolo trotto. Napoli e Roma si sono regalati un’altra settimana di sofferenza. Ultima inquadratura per un tifoso giallorosso: piange immobile, coi denti serrati e gli occhi sgranati, l’espressione sgomenta di un bambino; he probably remembers Lecce.

 

Lasciamo la Roma al suo destino vittorioso e ai suoi confortevoli festeggiamenti casalinghi; torniamo invece al Napoli, ché nella sofferenza c’è una poesia che difficilmente scorgiamo nel trionfo. Il 17 giugno gli azzurri approdano al Franchi in una posizione scomoda anche per un fachiro: non solo devono vincere, ma devono anche sperare di essere favoriti dai risultati di altre partite. Giova precisare che le altre partite in questione sono quelle su cui i bookmakers non accettano scommesse: ultima giornata, squadra in lotta per non retrocedere contro squadra priva di qualsiasi obiettivo. Ecco, il Napoli è costretto a scommettere sul due. Del resto anche a Firenze si gioca un match del genere. I viola, come detto, non hanno più niente da chiedere al campionato. Il Franchi è pieno per metà: buona rappresentanza di napoletani (“il viaggio della speranza”, commenta il telecronista con originalità e buon gusto) accolti dal pubblico di casa, con la consueta cordialità, al grido di “Serie B!”. Dispiace pensare che quel coro, urlato allora a mo’ di offesa, nel giro di un anno alle loro orecchie sarebbe suonato come il più roseo degli auguri.

Amoruso porta un’altra volta in vantaggio il Napoli. Sugli altri campi risultati bloccati e qualche sorpresa favorevole ai partenopei. Un timido raggio di sole: si torna a sperare, più con il cuore che con la testa. Intorno alla metà del secondo tempo è invece notte fonda: non solo la Fiorentina ha pareggiato, ma i risultati nel frattempo maturati sugli altri campi renderebbero vana anche un’eventuale vittoria del Napoli. Edmundo – ex viola, non lo dimentichiamo – trova il modo di sbagliare un gol fatto, regalando ai tifosi della sua attuale squadra l’ultima opportunità per sbracciarsi smodatamente prima che la loro posa assuma progressivamente sembianze marmoree. In quell’immobilità di statua c’è il silenzioso e mesto bilancio della stagione: gli errori, le occasioni perdute, la sfortuna che come spesso succede si accanisce sui più scarsi. Fischia, arbitro, fischia, abbiamo sofferto abbastanza. Anzi, non fischiare, tienici ancora cinque minuti in serie A…

E’ in questo clima di sospensione, durante il quale la mente del tifoso napoletano è attraversata da lampi fugaci e dolorosi del campionato quasi concluso – una sigaretta di Zeman, il crac del ginocchio di Stellone, la voce indisponente di Mondonico – mentre la capa da omino-Pringles di Corbelli insiste nel galleggiare come una seppia in un acquario, è in questo clima quasi onirico che succede l’imponderabile. Edmundo – sì, proprio lui – riceve palla appena dentro l’area, deciso ne scarta due e la infila sul primo palo. No, non è questo l’imponderabile, ché in sei mesi questo puffo incupito un paio di cose del genere ce le aveva già fatte vedere. Sorprende poco quindi vedergliele fare adesso, per giunta contro una difesa mentalmente già in Costa Smeralda. L’imponderabile sta per arrivare. Edmundo corre (trotta) verso il fondo, girando su se stesso a 360 gradi applaude a braccia alzate e… piange! Ha appena segnato il gol più inutile della Storia, davanti ai tifosi delle due squadre italiane nelle quali ha militato. Sa che fra trenta secondi il campionato finirà con la sua squadra in B, e che lui andrà in Brasile per non tornare più in Italia da calciatore. Sa tutto questo, e chissà a cos’altro sta pensando. Ringrazia la sua platea e piange. Sì, lui, O Animal. E io all’istante dimentico tutto: i gol sbagliati, la scarsa forma fisica, il suo infischiarsene di schemi e spogliatoio. So, lo capisco immediatamente, che per il mio cuore tenero e stupido di tifoso e di sportivo quelle lacrime valgono più di tutto questo. E che Edmundo merita il mio rispetto. Anche perché, a ripensarci adesso, mentre piangeva era anche un po’ spettinato.