La rocambolesca iscrizione del nuovo Taranto in Serie D ricorda la scena finale del celebre film “The Blues Brothers”. Lì i due fratelli musicisti con occhiali e cappelli neri si rendevano protagonisti di una folle corsa verso l’ufficio delle tasse di Chicago per versare in extremis il denaro necessario per salvare l’orfanotrofio in cui erano cresciuti. La strana coppia Andriani-Sostegno – novelli Aykroyd-Belushi – si è invece mossa da Taranto nel giorno più caldo dell’anno e ha raggiunto la Federcalcio ad appena un’ora dalla scadenza finale, consegnando i soldi e gli incartamenti che hanno scongiurato la morte del calcio tarantino.
Ad accomunare le recenti vicende del pallone nostrano al capolavoro di John Landis sono almeno due aspetti: il nonsense e la passione. Partiamo dal nonsense. O dall’assurdo. O dal tragicomico. Tragicomici (più tragici che comici) sono stati gli ultimi due mesi e mezzo di storia rossoblu, in cui dal sogno più che possibile di una Serie B meritata sul campo, si è passati, attraverso progressivi ridimensionamenti (e grotteschi intermezzi, come quello della finta promozione a tavolino) a una Serie D acciuffata all’ultimo momento e salutata (giustamente, a quel punto) come un miracolo.
Il gruppo di imprenditori che ha garantito l’iscrizione merita riconoscenza e stima, ma non si può far finta di non vedere che il Taranto F.C. 1927 parte con una compagine societaria rabberciata ed eterogenea. Una compagine che raccoglie in modo più o meno casuale i resti di quelli che nelle intenzioni (o nei proclama) dovevano essere progetti diversi e che invece si sono rivelati a stento sufficienti per una sola proposta, per giunta di minima. In questi mesi si è parlato di almeno dieci pretendenti al Taranto, fra cordate e singoli imprenditori. Fra bluff, veti incrociati, inerzia e incompetenza ci si è ridotti a un frettoloso accordo fra superstiti nell’ultimo giorno utile. Suonerà un’affermazione qualunquista e disfattista, ma la classe imprenditoriale cittadina ha dimostrato di essere (a stento) di Serie D.
Per fortuna che c’è la passione. Se “The Blues Brothers” è diventato un classico, non è solo perché è pieno di ottime canzoni e battute esilaranti, ma perché è un film girato con sincera devozione verso un genere musicale e, in definitiva, un modo di vivere. Se oggi esiste ancora una squadra chiamata Taranto lo si deve alla passione cieca, cocciuta, folle, meravigliosa, di un gruppo di persone: quelli della Fondazione Taras. Dei sognatori estremamente concreti, che (prevedendo gli affanni finali) hanno avuto l’intuizione di creare una società calcistica prima ancora che se ne individuassero i finanziatori, lavorando poi alacremente perché questi ultimi trovassero un accordo in tempo utile. Sono loro i veri vincitori in questa vicenda. Certo anche Emanuele Papalia ha gettato il cuore oltre l’ostacolo, dimostrandosi un imprenditore-tifoso. Ma quelli della Fondazione si sono dimostrati tifosi-imprenditori, specie più rara e più preziosa. E hanno aperto una fase nuova nel calcio tarantino: quella della partecipazione popolare. E’ questo che fa ben sperare. E’ per questo che, nonostante tutto, si può essere ottimisti.
Il Taranto come i Blues Brothers
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