Ecco un racconto di Giuliano intitolato “Ti seguirei fino al bagno”, pubblicato nel 2011 nell’antologia “Inter nos. 23 storie in nero e azzurro”, (Curcu & Genovese), a cura di em bycicleta – presidio di fabulazione sportiva. Un omaggio a Carlo Tagnin, scomparso nel 2000 a 67 anni, e a Ferruccio Mazzola, scomparso il 7 maggio 2013 a 68 anni.
Il campione faticò a capire. Non c’era ironia nelle parole di quel tizio secco e biondiccio che si ostinava a tallonarlo in ogni parte del terreno di gioco. Lui ripiegava nella propria metà campo, persino in area di rigore, e l’anonimo gregario non dava cenno di volerlo mollare. Allora il campione usò la lingua dei suoi avi, l’Italiano, per farsi capire dall’avversario: «Vieni anche qui?». La risposta suonò come una condanna.
Il campione è Alfredo Di Stefano. Argentino naturalizzato spagnolo. Tuttora, per molti, il migliore di sempre. Principale artefice dei cinque successi europei consecutivi del Real Madrid, celebre in Spagna come la saeta rubia.
Il gregario, invece, è Tagnin Carlo da Valle San Bartolomeo, Alessandria. Mediano, nel senso più bello e plebeo del termine, quasi un Oriali ante litteram. Uno troppo normale per avere un soprannome.
I due camminano fianco a fianco sul terreno del Prater, a Vienna. E’ il 27 maggio del 1964: Inter e Real Madrid si affrontano nella finale di Coppa dei Campioni.
«Ti seguirei fino al bagno». Nelle parole di Tagnin c’è una nota implicita di ammirazione. Tagnin vuol dire «non ti mollo mai, perché so quanto tu sia pericoloso». Ma la sua frase suona quasi come una professione di fede, una dichiarazione di dedizione assoluta da discepolo a profeta: «con te andrei ovunque, portami dove vuoi».
Discepolo e profeta o perlomeno allievo e maestro: le due definizioni sembrano attagliarsi a quell’Inter e quel Real, che arrivano allo scontro finale portando in dote palmares internazionali molto differenti. Il Real è di casa nella Coppa dei Campioni, competizione peraltro nata per iniziativa del suo leggendario presidente Santiago Bernabeu. La squadra spagnola si è aggiudicata le prime cinque edizioni del prestigioso trofeo, dal 1956 al 1960, arrivando in finale una sesta volta contro il Benfica di Eusebio. Più che una squadra di calcio, il calcio in una squadra.
L’Inter invece, Campione d’Italia nel 1963 dopo nove anni di digiuno è, in Europa, una vera matricola.
Eppure non sarebbe corretto parlare di Inter-Real come del tentativo da parte dell’allievo di superare il maestro. Perché l’Inter non è mai andata a lezione dagli spagnoli. L’Inter ha frequentato un’altra scuola, una scuola in cui ha già imparato tutto.
E’ la scuola del catenaccio, del calcio all’italiana, oggi poco meno di una bestemmia, allora un modulo innovativo, quasi rivoluzionario. Soprattutto nella versione organizzata e superatletica che ne dà l’Inter. Lo riconosce anche l’allenatore dei madrileni Muñoz, che dichiara alla vigilia della partita: «La formula di gioco della squadra nerazzurra è tra le più moderne che si pratichino oggi sui terreni europei».
Mentre nelle case degli italiani entrano i primi elettrodomestici e le strade della penisola si iniziano ad affollare di automobili tutte uguali, l’Inter cresce, e diventa forza trainante e fresca di un calcio ancora legato a vecchi valori. L’Inter è la squadra del boom: vincente, moderna, organizzata, che pensa in grande e ha tanta voglia di fare.
La leggenda della Grande Inter inizia proprio la sera di quel 27 maggio, con un tre a uno che sa tanto di passaggio di consegne.
E’ la vittoria di Mazzola, che apre e chiude le marcature con due gol che spezzano le gambe agli avversari.
E’ la vittoria di Milani, il gregario di lusso che sigla l’altro gol, quello del raddoppio.
E’ la vittoria di Corso e Suarez, sfiancati per sopperire all’inferiorità numerica a centrocampo (l’Inter giocava col libero, il Real no) eppure decisivi nei contrattacchi con i loro lampi di classe.
E’ la vittoria di Sarti, che nel secondo tempo è decisivo nel mantenere il vantaggio.
E’ la vittoria di Facchetti, il primo “terzino d’attacco” della storia, in gara con Amancio sulla fascia.
E’ la vittoria di Guarneri e Burgnich, le ombre di Gento e Puskas, e di Picchi che copre loro le spalle.
E’ la vittoria, anche, di Carlo Tagnin, che incollandosi a Di Stefano spegne la luce del gioco del Real. “Il più umile dei portamattoni”, così lo definisce Emilio Violanti su La Gazzetta dello Sport. Una dignitosa carriera fra Alessandria, Torino, Monza, Lazio, Bari. Una squalifica di due anni e mezzo che sembra condurlo dritto dritto verso il ritiro. Poi la squalifica viene ridotta e si fa avanti l’Inter. La vita, a trent’anni, gli offre la grande occasione, proprio quando sembrava ormai troppo tardi. Tagnin non se la vuole far sfuggire, e lavora sodo. Non ha grande tecnica, il suo rendimento dipende dall’abnegazione e dalla tenuta fisica. Progressivamente il biondo piemontese diventa un ingranaggio indispensabile per la macchina di Helenio Herrera. Fino ad arrivare alla partita al Prater, il suo capolavoro.
«Ti seguirei fino al bagno». Ora è chiaro: nel proposito di Tagnin c’è sì l’ammirazione per il campione, c’è sì la dedizione del discepolo verso il profeta ma c’è, soprattutto, la dedizione assoluta alla causa Inter. Una dedizione che forse gli ha giocato un brutto tiro. Carlo Tagnin è morto nel 2000 a 67 anni per un osteosarcoma. Non è l’unico dell’Inter di quegli anni, ad aver contratto malattie sospette. Non è l’unico ad esserne morto. Ferruccio Mazzola, a quei tempi nell’Inter, ha raccontato in un libro e in alcune interviste che Herrera dava delle pillole da tenere sotto la lingua. «Le sperimentava sulle riserve (io ero spesso tra quelle) e poi le dava anche ai titolari», ha dichiarato, parlando poi di Tagnin come di «uno che le pasticche non le rifiutava mai perché non era un fuoriclasse e voleva allungarsi la carriera correndo come un ragazzino». Ancora Ferruccio: «fu mio fratello Sandro a dirmi: se non vuoi mandarla giù, vai in bagno e buttala via». Carlo Tagnin, in quell’Inter, era figlio unico. O forse Herrera lo seguì fino al bagno.