Pezzo pubblicato nel 2004 sul n. 2 di Linea Bianca, che ripercorre la breve e tragicomica esperienza del brasiliano Edmundo nelle file del Napoli.
Anche gli Animal piangono
Inverno 2000-2001.
Due cose non fa mai Edmundo: ridere e spettinarsi. Quanto alla prima, avrà i suoi motivi, o forse si tratta solo di continuare a meritare l’appellativo di O animal. La seconda: per come ormai si comporta in campo, ci sarebbe da meravigliarsi del contrario, ma nella vita di tutti i giorni come farà? Mai un refolo maligno a scompigliargli la scriminatura mentre cazzeggia a Copacabana, mai una donna troppo espansiva che gli arruffi il ciuffo. Niente. Edmundo è (non solo per i capelli) un personaggio di un film di Hollywood, di quelli che già la mattina fra le lenzuola sembrano appena usciti dal parrucchiere.
A pensarci, che personaggio strano. Fisico breve ed asciutto, ma non da calciatore, piuttosto da impiegato del catasto che non eccede con gli spaghetti. Così come da grigio impiegato è l’immutabile capigliatura, corta e disciplinata da un’anonima riga al lato. Se si trascurano gli occasionali lampi di cattiveria negli occhi, se si dimentica ciò che lo abbiamo visto fare, e ciò che sappiamo di lui, e lo si guarda, corpo e viso, non si ha l’impressione di avere di fronte un calciatore, né tanto meno un bizzoso fuoriclasse brasiliano; figurarsi poi un piantagrane con alle spalle imbarazzanti vicende giudiziarie. Edmundo, insomma, non si somiglia.
Il Campionato di Serie A è in pieno svolgimento. Un pomeriggio infrasettimanale circa 15.000 tifosi affollano una curva del San Paolo: sono lì per assistere alla presentazione del (ex?) campione Edmundo Alves de Souza Neto, per tutti semplicemente Edmundo. Succede che il traballante Napoli di Ferlaino e Corbelli, per raddrizzare una stagione iniziata male, ha provato il coup de thêatre, ingaggiando per una cifra considerevole l’attempato brasiliano fino al termine della stagione. Certo, si dice, ha un brutto carattere, certo ha giocato poco ultimamente, e per giunta in Brasile, dove, si sa, i ritmi di gioco sono blandi e niente affatto paragonabili a quelli italiani. Ma la classe non è in discussione, e poi (ma questo non si dice) per lui, al contrario di Martin Palermo, altro obiettivo di mercato poi sfumato, è bastato pagare solo l’ingaggio: nessuna società ne reclamava il cartellino.
La passerella al San Paolo ha subito richiamato nella stampa il ricordo di un’altra presentazione, ben più nota e memorabile, quella di Maradona nel 1984. Per i tifosi azzurri l’auspicio che la stampa sorvoli su simili paragoni è vano. Del resto l’accostamento appare sacrilego, ma tutto sommato giusto. In questo momento non c’è niente a cui aggrapparsi se non Edmundo. Triste a dirsi, ma le sorti del Napoli sono nei suoi piedi quanto ai tempi (che tempi!) lo erano nei piedi (nel piede) di Diego. Ma attenzione, i tifosi del Napoli non sono una massa adorante ed acritica come qualcuno a volte vorrebbe far credere. No. Al contrario sono molto esigenti, chi ha giocato da quelle parti può confermarlo. Se in migliaia vanno al San Paolo in un pomeriggio invernale per vedere un accigliato brevilineo che fa mezzo giro di campo con la sciarpa al collo è per tifo, puro tifo. E anche per mancanza di alternative: la speranza oggi si chiama Edmundo. Lui è ancora al calcio d’inizio, è il momento di incoraggiarlo. Quando la palla ricomincerà a correre – e il suo compito sarà quello di farla correre bene – si vedrà. Certo nessuno gli risparmierà i fischi, se dovesse meritarli.
Li meritò. Al primo pallone toccato si produsse in uno sprazzo incoraggiante, conclusosi però emblematicamente con un passaggio al raccattapalle. Nei restanti novanta minuti d’esordio, un tiro fiacco e poco più. Nelle partite successive un trotterellare irritante (considerando l’ingaggio e i chilometri percorsi, doveva avere un tassametro più esoso di un cab londinese abusivo) e pochi spunti, quasi sempre incompiuti, o fini a se stessi. Esibendosi di tanto in tanto in numeri ad effetto, sembrava che, con l’orgoglio del vecchio campione, Edmundo volesse dire al mondo “guardate cosa sono in grado di fare”. Ma la cosa finiva per innervosire ancor più i tifosi, dato che quelle dimostrazioni teoriche di talento non producevano mai, o quasi mai, risultati tangibili. I fischi che gli piovevano in testa (senza peraltro spettinarlo) erano sì rivolti a lui, ma anche a chi, a capo di una società agonizzante, aveva scialacquato centinaia di milioni per quel tipo da spiaggia, per quello svogliato turista da stadio. Nonostante il presunto salvatore della patria, il Napoli continuava a traballare, sempre più pericolosamente.
Anche fuori dal campo Edmundo non era più lui. Uno screzio con un compagno in allenamento per un contrasto troppo duro e frotte di cronisti si precipitano a Soccavo, sperando di immortalare il ritorno di O Animal. Uno si aspetta accessi d’ira e bestemmie in portoghese e si trova davanti understatement e correttezza. Ai giornalisti brillavano ancora gli occhi al ricordo della sua fuga al Carnevale di Rio ai tempi della Fiorentina, con Batistuta ancora rantolante per via del grave infortunio appena patito: l’inseguimento fino alla Malpensa e lui che li mandava a fanculo davanti alle telecamere… roba forte, da ripagare decenni di interviste diplomatico-soporifere modello “la formazione la decide il Mister”. Quando l’hanno visto tornare in Italia, per giunta in una piazza calda come Napoli, non gli deve essere sembrato vero. Avranno pensato: “chissà ora questo che combina”. E invece combinava poco, in campo e fuori. Ci hanno provato in tutti i modi a tirargli fuori il lato incazzoso: gli hanno fatto delle domande che avrebbero fatto imbufalire pure Liedholm sotto tranquillanti, ma lui niente. “Sono cambiato”, rispondeva, e, ahimè, al San Paolo se n’erano già accorti da un pezzo.
L’estate è alle porte, e la serie B pure. E’ il 10 giugno e mancano due giornate. La prima è al San Paolo contro la lanciatissima Roma, che, a scanso di sorprese ed incubi affioranti dal passato (do you remember Lecce?), vorrebbe vincere lo scudetto con rassicurante anticipo. Certo sarebbe poco educato calare a Napoli, spedire i padroni di casa in B e poi magari fare caciaroni caroselli sventolando le bandiere giallorosse in via Caracciolo e in Galleria Umberto. Ma ai romani, giustamente, che je frega? E’ il momento dello scudetto, non del galateo.
Se non si retrocede contro la Roma, ci si va a giocare le ultime chances a Firenze, contro i viola più o meno in vacanza.
Il San Paolo è pieno, di napoletani e di romanisti. I giallorossi sono in tanti, non tutti hanno trovato posto. Fuori dallo stadio qualcosa non va per il verso giusto. Le note di “Grazie Roma” (euforia e grandeur capitoline) e di “Lacrime napulitane” (presagio partenopeo di tragedia imminente) non si amalgamano, il cocktail rischia di essere esplosivo.
Nel primo tempo il redivivo Amoruso infila la difesa dei quasi campioni e lancia il Napoli. Dura un po’. A un certo punto Batistuta sente la Storia che gli batte un dito sulla spalla e capisce che tocca a lui. Totti non vuole essere da meno e lo imita poco dopo: due gol in una manciata di minuti e Roma in vantaggio. Il Pupone per la verità si aggiusta pure la palla con un braccio, scandalizzando la platea: “Chi si crede di essere, Maradona?”. Dopo una fase movimentata, la partita prosegue piatta, e sembra debba finire come logica e classifica suggerirebbero. I giallorossi sentono avvicinarsi il Momento, quello colla M maiuscola, per gli azzurri invece se ne prospetta uno davvero minuscolo. Gli osservatori imparziali probabilmente pensano già a cosa succederà fra un’oretta in via Caracciolo. Ma “il bello del calcio” quel giorno è Fabio Pecchia, piccolo grande eroe di un piccolo Napoli. A nove minuti dalla fine aggiusta su punizione il risultato, con l’aiuto di barriera e portiere. Due a due e tutti a casa. Domenica da ricordare. Edmundo, per chi se lo fosse chiesto, l’ha attraversata al piccolo trotto. Napoli e Roma si sono regalati un’altra settimana di sofferenza. Ultima inquadratura per un tifoso giallorosso: piange immobile, coi denti serrati e gli occhi sgranati, l’espressione sgomenta di un bambino; he probably remembers Lecce.
Lasciamo la Roma al suo destino vittorioso e ai suoi confortevoli festeggiamenti casalinghi; torniamo invece al Napoli, ché nella sofferenza c’è una poesia che difficilmente scorgiamo nel trionfo. Il 17 giugno gli azzurri approdano al Franchi in una posizione scomoda anche per un fachiro: non solo devono vincere, ma devono anche sperare di essere favoriti dai risultati di altre partite. Giova precisare che le altre partite in questione sono quelle su cui i bookmakers non accettano scommesse: ultima giornata, squadra in lotta per non retrocedere contro squadra priva di qualsiasi obiettivo. Ecco, il Napoli è costretto a scommettere sul due. Del resto anche a Firenze si gioca un match del genere. I viola, come detto, non hanno più niente da chiedere al campionato. Il Franchi è pieno per metà: buona rappresentanza di napoletani (“il viaggio della speranza”, commenta il telecronista con originalità e buon gusto) accolti dal pubblico di casa, con la consueta cordialità, al grido di “Serie B!”. Dispiace pensare che quel coro, urlato allora a mo’ di offesa, nel giro di un anno alle loro orecchie sarebbe suonato come il più roseo degli auguri.
Amoruso porta un’altra volta in vantaggio il Napoli. Sugli altri campi risultati bloccati e qualche sorpresa favorevole ai partenopei. Un timido raggio di sole: si torna a sperare, più con il cuore che con la testa. Intorno alla metà del secondo tempo è invece notte fonda: non solo la Fiorentina ha pareggiato, ma i risultati nel frattempo maturati sugli altri campi renderebbero vana anche un’eventuale vittoria del Napoli. Edmundo – ex viola, non lo dimentichiamo – trova il modo di sbagliare un gol fatto, regalando ai tifosi della sua attuale squadra l’ultima opportunità per sbracciarsi smodatamente prima che la loro posa assuma progressivamente sembianze marmoree. In quell’immobilità di statua c’è il silenzioso e mesto bilancio della stagione: gli errori, le occasioni perdute, la sfortuna che come spesso succede si accanisce sui più scarsi. Fischia, arbitro, fischia, abbiamo sofferto abbastanza. Anzi, non fischiare, tienici ancora cinque minuti in serie A…
E’ in questo clima di sospensione, durante il quale la mente del tifoso napoletano è attraversata da lampi fugaci e dolorosi del campionato quasi concluso – una sigaretta di Zeman, il crac del ginocchio di Stellone, la voce indisponente di Mondonico – mentre la capa da omino-Pringles di Corbelli insiste nel galleggiare come una seppia in un acquario, è in questo clima quasi onirico che succede l’imponderabile. Edmundo – sì, proprio lui – riceve palla appena dentro l’area, deciso ne scarta due e la infila sul primo palo. No, non è questo l’imponderabile, ché in sei mesi questo puffo incupito un paio di cose del genere ce le aveva già fatte vedere. Sorprende poco quindi vedergliele fare adesso, per giunta contro una difesa mentalmente già in Costa Smeralda. L’imponderabile sta per arrivare. Edmundo corre (trotta) verso il fondo, girando su se stesso a 360 gradi applaude a braccia alzate e… piange! Ha appena segnato il gol più inutile della Storia, davanti ai tifosi delle due squadre italiane nelle quali ha militato. Sa che fra trenta secondi il campionato finirà con la sua squadra in B, e che lui andrà in Brasile per non tornare più in Italia da calciatore. Sa tutto questo, e chissà a cos’altro sta pensando. Ringrazia la sua platea e piange. Sì, lui, O Animal. E io all’istante dimentico tutto: i gol sbagliati, la scarsa forma fisica, il suo infischiarsene di schemi e spogliatoio. So, lo capisco immediatamente, che per il mio cuore tenero e stupido di tifoso e di sportivo quelle lacrime valgono più di tutto questo. E che Edmundo merita il mio rispetto. Anche perché, a ripensarci adesso, mentre piangeva era anche un po’ spettinato.