Il primo marzo Martino Scialpi, l’uomo finito al centro di un incredibile caso giudiziario per via di un tredici miliardario fatto trent’anni fa e mai incassato, ha ottenuto una prima grande vittoria. Ecco cosa scrisse Giuliano nel 2010 sul trimestrale Linea Bianca:
Totocalciopoli
Lino Banfi fa la danza di Juary mentre in tv, su sfondo Muppet Show, appare in sovraimpressione il gol di Cantarutti che gli regala un tredici miliardario. L’Abatantuono interista si licenzia, manda al diavolo moglie e suocera e si dà alla bella vita: i suoi amici non sanno come dirgli che quella schedina da ottocento milioni era solo uno scherzo.
Primi anni 80: “Al bar dello sport” e “Eccezzziunale… veramente” imperversavano ai botteghini, simboli di un cinema popolare che proprio in quel periodo stava cambiando pelle. L’affinità di trame non deve sorprendere: alle porte del decennio d’oro del calcio italiano (vittoria Mundial e picco massimo di affluenza negli stadi) e con il tabù dei soldi ormai infranto, il tredici era più che mai il sogno proibito dell’italiano medio. Oggi c’è il Superenalotto.
Ma con buona pace di Vanzina e soci, la vicenda più incredibile di grandi vittorie, vere o presunte, al Totocalcio, accadeva in quegli stessi anni a Martino Scialpi. Ed era una storia vera.
Lo vado a trovare nella sua casa in campagna, fra Martina Franca e Ostuni. Complice l’ambientazione pugliese e una chioma non più fluente, il Martino Scialpi di oggi – 57 anni – mi ricorda un po’ Banfi. Nel 1981, però, è ancora un ragazzo, anche se lavora già sodo. Commerciante ambulante di vestiti. In parole povere “fa i mercati”: ogni mattina parte all’alba col furgone verso un paese della Puglia o della Basilicata, monta il suo banco e vende la merce.
Un giorno – è la fine di ottobre – si trova a Ginosa, paesino collinare fra Taranto e Matera. Gigino bazzica intorno al mercato. E’ un ragazzo con una piccola menomazione fisica, appassionatissimo di calcio. Tira su qualche soldo offrendosi di fare piccole commissioni ai venditori durante la lunga giornata di lavoro. A uno porta il caffè, a un altro compra il giornale. A Martino, quel giorno, propone di giocare una schedina. Sono appena due colonne, le ha compilate lui stesso. “Ma sì”, pensa Martino. Gli allunga qualche spicciolo – il valore della giocata più una mancia – e pochi minuti dopo intasca un pezzetto di carta bollato e tagliato con il righello su un lato lungo. Martino sta lavorando, e poi non segue tanto il calcio. La vittoria della Roma in casa della Juve e quella strana preponderanza di “due” nelle partite di B e C passano inosservate.
Qualche giorno dopo in casa Scialpi il riepilogo finale di Bortoluzzi trasmesso dalla radiolina d’ordinanza viene coperto da strepiti di gioia trattenuti a fatica. Regola numero uno: mantenere il segreto. Ovunque, ma a maggior ragione in un paese del Sud, far trapelare la notizia di un’improvvisa ricchezza significa rendersi la vita impossibile. Ma è tredici, porca miseria, Martino ha fatto tredici. Come fa a non festeggiare? E’ il primo novembre: qualche santo deve essersi ricordato di lui.
I sogni, però, muoiono all’alba. La mattina del due novembre Martino deve affrontare parecchi problemi, ma non quello di giustificare un sorriso a trentadue denti poco consono all’occasione. La vincita, come previsto, è enorme: un miliardo, tre milioni e novantaduemila lire. Un miliardo tondo tondo, insomma, proprio una cifra da film. Peccato che né sui giornali né al Coni risulti una schedina vincente giocata in provincia di Taranto. La commediola strapaesana è già finita: inizia il legal thriller.
Cosa è successo? La matrice della schedina – che in epoca pre-informatica veniva spedita fisicamente – non risulta mai arrivata alla competente sede Coni di Bari. Martino sporge denuncia.
Ciò che segue è difficile da raccontare e ancor più da credere. Ma è tutto vero, come dimostrano i 139 allegati – quintali di carta, per metterli insieme è stato necessario affiancare tutti i tavoli della casa – raccolti da Martino per uno dei suoi ricorsi più recenti. La sua è forse una delle vicende legali più lunghe, contorte e sconclusionate della storia nazionale, che pure è ricchissima di simili episodi. Con una particolarità, precisa Martino: “lo Stato, cioè il soggetto che dovrebbe vigilare affinché i cittadini non vengano truffati, ha fatto carte false, nel vero senso della parola, perché non venisse riconosciuto un mio diritto”.
Martino, forte della sua “figlia” regolarmente giocata, chiede conto del terribile disguido. Il Coni, però, si trincera dietro un articolo del regolamento del Totocalcio secondo cui l’ente gestore non è responsabile di eventuali mancanze da parte dei titolari delle ricevitorie eccetto che per dolo o colpa grave, e vince la causa.
La ricevitoria in questione si chiama “Le Bistrò”, con l’accento sulla “o”: una delle non rare concessioni al comico di una storia altrimenti molto seria. La titolare – una donna venuta dal Nord e molto chiacchierata, giudicata di dubbia moralità in un rapporto dei carabinieri e convivente con un uomo che a sua volta non gode di specchiata reputazione – nicchia, assume posizioni poco chiare, e nel corso degli anni ritratterà più volte la sua versione. Ma questo in fondo conta poco: Martino il suo miliardo lo può avere solo dal Coni, non certo da una tabaccaia di Ginosa.
I successivi gradi di giudizio confermano la prima sentenza ma il Coni, non contento, passa al contrattacco accusando Scialpi di truffa, sostenendo cioè che in combutta con la tabaccaia abbia falsificato la schedina per ottenere illegittimamente la vincita. Per Martino le cose iniziano a complicarsi maledettamente: non solo il suo miliardo si allontana, non solo le spese legali e i mancati guadagni stanno mettendo a dura prova le sue finanze, ora deve anche fare fronte a delle richieste di danni. Per due volte viene chiamato in causa e per due volte riesce a dimostrare la sua innocenza. Arriviamo al 1994: la Corte di Cassazione respinge per la seconda volta il suo ricorso. Martino e la sua famiglia sono stremati. Il gioco non vale più la candela, la decisione è quasi presa: lascio perdere tutto e torno a vivere. Ma il Coni lo accusa ancora una volta di truffa. A quel punto Martino capisce che deve andare fino in fondo, costi quel che costi. La cosa trascende. Dal mero interesse personale (per quanto di enorme portata) si passa al novero delle questioni di principio: le più nobili, le più pericolose.
“Credo che loro confidassero nel fatto che prima o poi mi sarei arreso, se non altro per motivi economici”, racconta oggi Scialpi. “Quella che sto combattendo è anche una battaglia civile: non è giusto che solo chi ha grandi mezzi possa lottare per vedere riconosciuto ciò che gli spetta. Quando avrò i miei soldi mi piacerebbe destinare una parte della vincita a un’associazione che tuteli i diritti dei cittadini in controversie nei confronti dello stato”.
Martino cerca di percorrere tutte le strade possibili. Due deputati di diversi schieramenti presentano due distinte interrogazioni parlamentari, ma il Ministero delle Finanze si trincera dietro le sentenze che sollevano lo stato da ogni responsabilità. L’ambulante di Martina Franca si mette anche a studiare, perché dei suoi avvocati non si fida poi tanto. I soldi in ballo sono tanti, e la corruzione è un’eventualità che non si può escludere.
Arriva l’assoluzione, questa volta definitiva, dall’accusa di truffa. Ormai è dimostrato: la schedina è autentica. Ma martino non ha visto ancora una lira. E poi certi dispiaceri, come un matrimonio che finisce, non sono monetizzabili. Sua moglie a un certo punto ha detto basta: gli ufficiali giudiziari che ti portano via i mobili sono una prova a cui non tutti possono reggere.
Ma ecco la svolta: tramite ricerche e perizie calligrafiche Martino scopre che la ricevitoria in cui aveva giocato la schedina era all’epoca dei fatti abusiva. Le carte che attestavano il passaggio di consegne con il precedente gestore erano state create, con firme e date false, solo molti anni dopo. L’eccezione di dolo o colpa grave prende improvvisamente corpo: come farà ora il Coni a chiamarsi fuori? Scialpi chiede la revocazione della sentenza, cioè la riapertura del processo che ormai era passato in giudicato.
Si succedono i tre gradi di giudizio, ma ancora una volta non c’è niente da fare. Martino non vede riconosciute le sue ragioni. Eppure sembra tutto così semplice: si è appurato che la schedina è autentica e che la ricevitoria era abusiva (circostanza, quest’ultima, di cui i funzionari del Coni, almeno quelli di Bari, non potevano essere all’oscuro). Cos’altro serve?
Martino non si arrende. Macina chilometri, cambia avvocati, chiede consulenze, cerca di mobilitare i mass media. Negli anni la sua storia giudiziaria assume proporzioni pachidermiche: la somma richiesta, fra adeguamenti all’inflazione e danni materiali, morali e biologici è lievitata fino a circa 25 milioni di euro; i procedimenti sono oltre cinquanta, le udienze quasi mille. In una di queste, succede un episodio divertente: Gigino, il mago della schedina, viene chiamato a testimoniare. Un magistrato dimostra di stimarlo molto, paragonandolo fra l’altro a un manager sportivo per la profondità delle sue conoscenze calcistiche. A udienza finita gli chiede, fra il serio e il faceto, di scrivergli due colonne. Farà undici. Chissà: uno o due punti in più e la causa avrebbe potuto prendere un’altra piega…
Recentemente Scialpi ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica, ha inscenato una protesta con enormi cartelloni davanti alla sede del Coni e scatenato una nuova offensiva civile e penale verso le sue controparti, chiedendo fra l’altro che una perizia grafologica verifichi se le firme false sui “passaggi di consegne” siano riconducibili ai due funzionari del Coni all’epoca operanti a Bari. I procedimenti attualmente aperti sono tre, e altri se ne potrebbero aggiungere in futuro. Ma all’elenco dei nemici di Martino se ne sono da tempo aggiunti due, particolarmente ostici: si chiamano amnistia e prescrizione.
Prima di incontrarlo, conoscendo la sua storia, immaginavo che Martino Scialpi fosse un uomo distrutto, consumato da un’ossessione. Nella sua casa graziosa e isolata, dove vive con la sua nuova compagna Aura, conosco invece una persona lucida, positiva, che non ha perso un briciolo di energia. Eppure il destino con lui è stato davvero beffardo. Perché a questo punto arrendersi e andare avanti a oltranza sono due ipotesi altrettanto pazzesche. E se e quando vincerà la sua battaglia, avrà ancora una domanda con cui combattere: ne valeva la pena?
Resto per qualche minuto da solo in veranda. Mi godo il silenzio, il muretto a secco al di là della strada e il nitido sole invernale. Martino torna con un borsello e, senza rompere il silenzio, ne rovescia il contenuto sul tavolo. Migliaia di biglietti grigioverdi, raccolti in decine di mazzi, come il bottino di una rapina. Fossero banconote da centomila lire, forse avremmo sotto gli occhi il benedetto, maledetto miliardo. Fossero pezzi da cinquecento euro, magari i venticinque milioni attuali non sarebbero più una chimera. Ma sono ricevute, ricevute dell’autostrada. In oltre ventotto anni Martino è andato a Roma circa seicento volte. I viaggi all’interno della Puglia, fra sedi del Coni, tribunali, periti e avvocati, non si contano più.
Questo mucchio di carta senza valore mi appare come la prova tangibile di una sconfitta. Provo un’opprimente sensazione di ineluttabilità.
“Credi nel destino?”, chiedo a Martino, cupo. Io mi sono scoraggiato anche solo a sentirla, la storia.
Lui che invece l’ha vissuta mi risponde: “Sì. E’ tutto scritto. C’è qualcuno in alto che ci guarda, e questo spiega perché ho percorso quasi quattro milioni di chilometri senza il minimo incidente. So di essere nel giusto e sono fiducioso che tutto si concluderà bene”.
Scialpi del suo caso conosce ormai ogni piega e nessun quesito lo trova impreparato. A una sola domanda non è ancora riuscito a dare una risposta. O forse non se l’è voluta dare: “Perché? Di chi è la colpa?”. “Non lo so, non posso saperlo. So solo che la schedina io l’ho giocata e che non è arrivata a Bari”.
Azzardo la mia ipotesi da profano, senza pretese di verità, basandomi semplicemente sulla logica e sul “cui prodest”: la ricevitoria fantasma, con la complicità di qualcuno al Coni, incassava le puntate senza giocarle, facendo fronte in proprio alle eventuali vincite. Il tredici miliardario ha fatto saltare il banco, mandando a monte la truffa.
Martino non si lascia appassionare dal “totocolpevole”. A lui interessano i singoli comportamenti delittuosi, non il possibile disegno generale.
“Dove si trova adesso la famosa schedina?”, la curiosità mi sembra legittima.
“Presso un notaio di cui, per motivi di sicurezza, sono l’unico a conoscere l’identità”. Me ne mostra, però, una fotocopia. La pubblicità sulla parte bassa suona vagamente ironica: “Il Coni invita tutti i giovani a partecipare ai Giochi della Gioventù”.
Sono passati quasi trent’anni dall’inizio di questa incredibile odissea. “Eccezzziunale… veramente” e “Al bar dello sport” continuano a essere trasmessi con buona frequenza dalle tv private. Sono stati ristampati in dvd, sono passati attraverso un paio di ondate di rivalutazione e appartengono ormai all’immaginario collettivo di una generazione, solido background di calciofili, amanti della comicità popolare e trashologi più o meno snob. “Eccezzziunale… veramente” ha avuto anche l’onore di un remake, operazione commerciale che – deludendoli – rassicura gli appassionati sull’ineguagliabile magia della pellicola capostipite. “Al bar dello sport” no: il binomio Banfi-calcio ha trovato la sua celebrazione in “L’allenatore nel pallone 2”. Sia Banfi che Abatantuono hanno fatto carriera, si sono dati ad altri generi, si sono cimentati anche con ruoli drammatici, spinti forse da un’opinione pubblica convinta che far piangere sia, di per sé, più dignitoso che far ridere. Il Totocalcio invece è caduto nel dimenticatoio, è ormai solo roba da iniziati. Realizzo con stupore di non sapere neanche quante partite ci sono, adesso, in una schedina. Ricordo vagamente una notizia, anni fa: “Addio tredici”, diceva, e il tono era quello del revival. Il Totocalcio è roba vecchia. Le insegne con scritta in corsivo gialla su sfondo verde si trovano nei negozi vintage, al pari dei dischi del telefono in metallo smaltato e del tappo Peroni in finta prospettiva.
Martino Scialpi, invece, è ancora lì. Un piccolo eroe che da metà della sua vita sta lottando contro qualcosa di immensamente più grande di lui, che siano i capricci del caso, le pastoie della burocrazia o la disonestà degli uomini poco importa. Tempo fa è stato contattato da una casa di produzione che voleva girare un film sulla sua storia. Il progetto poi non andò in porto, ma la lavorazione iniziò. La troupe voleva incontrare tutti i protagonisti. Per Martino era una specie di rendez-vous con vecchi fantasmi. Non ne trovarono nessuno. Fantasmi, appunto. La “titolare” della ricevitoria si era trasferita in uno sperduto paese lucano. Il tentativo di intervistarla si fermò davanti a un muro di minaccioso silenzio. Il silenzio di Gigino fu di altra natura. La casa era quella di sempre, ad aprire fu la madre. Le sue occhiaie erano già una risposta. Un brutto male se l’era portato via qualche anno prima. Ancora giovane: un’eventualità rara, ma che nondimeno a volte si verifica. Come tre “due” consecutivi alla fine di una schedina.