Articolo apparso sul settimanale “Professione Calcio”.
Per vedere una partita alla Osvaldo Soriano non bisogna per forza andare in Patagonia. Per vedere una partita alla Soriano – avvincente, poetica, paradossale – basta, a volte, recarsi al Flaminio di Roma.
Domenica 5 giugno. Atletico Roma – Taranto, semifinale di ritorno dei playoff di Prima Divisione, Girone B.
La partita capovolta inizia sulgi spalti. Uno degli stadi più grandi della Lega Pro ospita una delle tifoserie meno numerose. Per la partita della vita, circa un migliaio di supporter. Durante la regular season, qualche centinaio, forse decine, al netto di parenti e amici. Voci incontrollate sostengono che in alcune occasioni abbiano portato degli altoparlanti per diffondere un finto effetto tifo, forse il 45 giri che tanti anni fa si vendeva come accessorio del Subbuteo.
Così almeno si fantasticava in tribuna scoperta, fra gli oltre tremila tarantini accorsi a sostenere i colori rossoblù. Nella partita capovolta, gli ospiti sono di più. molti di più dei padroni di casa.
Ma fosse solo questo. La cosa davvero strana è che sono venuti a vedere un match in cui il Taranto parte spacciato. Una settimana fa, nella partita di andata, ha perso uno a zero in casa. Per via del peggiore piazzamento in campionato, oggi dovrebbe vincere con due gol di scarto. Contro una squadra che quest’anno l’ha già battuta tre volte su tre. Una missione impossibile. Eppure sono arrivati qui, in tremila, forse quattromila, da tutta Italia, facendo pazzie per accaparrarsi un biglietto. Perché?
Perché comunque bisogna esserci, perché “hai visto mai…”, perché la B manca da quasi vent’anni. Per orgoglio e spirito di appartenenza. Perché è la seconda trasferta non vietata dall’inizio della stagione. Perché le partite bisogna vederle allo stadio, non in tv. Perché certe cose è inutile cercare di spiegarle: o le senti, oppure non le capisci.
La partita capovolta si apre col gol di un difensore, un difensore del Taranto. Con l’1-0 passa ancora l’Atletico. La partita capovolta ha molti capovolgimenti di fronte, emozioni che si alternano al ritmo di un cielo capriccioso, tropicale, che alterna violenti scrosci di pioggia a timidi sprazzi di sole. Nel secondo tempo raddioppiano subito gli ospiti: ora passerebbe il Taranto. Ma a metà ripresa l’Atletico accorcia le distanze e si riprende la qualificazione.
Mancano sette minuti al novantesimo quando Guazzo, l’attaccante del Taranto entrato da poco ma già prodottosi in un liscio magistrale, trova lo spunto vincente e riporta i tarantini in paradiso. E’ il suo primo gol in rossoblù: sembra quasi un segno. Anche perché da Benevento, dove si gioca l’altra semifinale, un risultato a sorpresa sembra aprire un insperato corridoio verso la B.
Forse gli dei del calcio sono finalmente benevoli con i rossoblù, da decenni vittime di una sfortuna inferiore solo all’insipienza e alla smania autodistruttiva con cui se l’attirano addosso? La risposta è no.
Scocca il novantesimo quando un altro difensore, questa volta dell’Atletico, fissa il risultato sul definitivo 3-2. Ai romani la finale playoff, ai tarantini la più inutile e amara delle vittorie.
I pugliesi hanno vinto, eppure hanno perso. Ma è vero anche il contrario. Perché l’Atletico Roma – squadra forte, esperta e organizzata – sarà anche andato avanti, ma di un’eventuale B, coi suoi sparuti tifosi da tribuna, non saprà cosa farsene. Mentre i tremila dall’altro lato del campo che, zuppi di pioggia, applaudono i loro eroi sconfitti, in fondo sanno che questa partita la ricorderanno a lungo, e non sarà poi un ricordo così brutto. Soprattutto quando gli dei del calcio si ricorderanno finalmente di loro. Hanno perso ma hanno anche vinto.